Seleziona Pagina

Riflessioni sulla sentenza 21748/07 della C.S. di Cassazione

2009-01-9

Voglio affermare, anche pubblicamente, che i giudizi
pronunciati da quei tribunali in nome del popolo italiano, non sono
pronunciati in nome mio

Clicca per Ingrandire


Clicca per Ingrandire

E’ circostanza nota a tutti che la Corte d’Appello
di Milano, dietro “mandato” della Suprema Corte di
Cassazione – sent. 21748/07, presidente dott.ssa Maria
Gabriella Luccioli, con proprio decreto, volutamente dichiarato
immediatamente esecutivo, ha autorizzato il tutore di Eluana
Englaro a sospenderle l’alimentazione. (Non uso
l’aggettivo forzata che di solito viene posto a fianco del
detto termine, poiché ritengo che non vi sia nessuna
forzatura nel dare cibo e acqua a qualsivoglia soggetto, posto che
lo stimolo della fame e della sete sorge naturale in ogni essere
umano)

Singolare, come dicevo, l’aver previsto l’immediata
esecutorietà ad un provvedimento di tal fatta, quando in via
ordinaria (art. 741 comma 1° c.p.c.), la regola prevede che il
provvedimento divenga esecutivo quando siano spirati i termini per
eventuali ricorsi alla giudice superiore.

Singolare, appunto, quasi a voler cristallizzare con la morte
della sventurata ragazza, i principi giuridicamente eversivi (qui,
a mio giudizio, si esce anche dal canone della creatività),
esposti nella citata sentenza delle Suprema Corte di Cassazione.
Provvedimento che, in nome del principio dell’assoluta
autonomia dell’essere umano, figlio delle teorie
superominiche del novecento e dell’utilitarismo consumistico,
mette nel nulla il principio di diritto naturale di
intangibilità della vita umana, negando, con abili sofismi,
che l’ordinamento costituzionale tuteli la vita quale valore
superiore anche alla libertà personale.

Ciò che più mi sorprende, tra le tante obiezioni
che si possono muovere alla citata sentenza, che autorizza in
concreto la morte di una donna per fame e sete, è il fatto
che se esiste un diritto assoluto all’autodeterminazione,
fino a legittimare, ovvero ritenere giuridicamente tutelabile una
volontà suicidaria, deve, per forza di cose esistere anche
il dovere, da imporre a medici o a dei “boia di stato”,
appositamente reclutati, di rendere attuale il diritto
all’autodeterminazione per quelle persone che non sono in
grado di farlo in via autonoma.

Nello spirito del nostro ordinamento giuridico, che affonda le
sue radici in 2000 anni di cristianesimo, l’offesa alla vita
umana, anche se proveniente dallo stesso titolare del diritto,
è stata sempre deprecata, tanto da prevedere sanzioni penali
per tutti coloro che aiutano il suicida e, a contrario, è
previsto che ci si attivi sempre per salvare la vita di un uomo,
anche di quello che, tentando di suicidarsi non vi sia riuscito,
pena l’omissione di soccorso. Ora, però, visto che la
Suprema Corte ravvisa nella irreversibilità del quadro
clinico e nella volontà del paziente di morire le due
condizioni che legittimano una condotta omissiva volta a permettere
la morte, c’è da domandarsi se il medico che giunga a
soccorre un soggetto che ha tentato il suicidio, accertato un
quadro clinico disperato, sia ancora tenuto a tentare di rianimare
il paziente o debba astenersi davanti a quella che è la
massima espressione dell’autonomismo umano, ovvero
l’atto suicidario.

La sentenza in discorso, introducendo di fatto
nell’ordinamento la possibilità per l’incapace,
di essere lasciato morire, purché abbia in precedenza,
manifestato in qualsivoglia maniera tale “desiderio”,
porta la legge ordinaria e costituzionale oltre i suoi confini. Il
famoso articolo 32 comma 2° della costituzione che darebbe
copertura al ragionamento della Corte Suprema, vera ispiratrice e
mandante necessario, dell’atto esecutivo della Corte
d’Appello di Milano, venne per vero voluto, dai suoi
presentatori on.le Aldo Moro e Paolo Rossi, per tutt’altre
ragioni, ovvero per tutelare il cittadino nei confronti dello Stato
contro pratiche lesive delle dignità umana: si legge nel
resoconto sommario della seduta di martedì 28 gennaio 1947
“…. Si tratta prevalentemente del problema della
sterilizzazione e di altri problemi accessori”. Non certo per
sancire il diritto ad una dolce morte, così come vuole farci
intendere la Suprema Corte.

A giudizio di chi scrive, pertanto, si può rilevare come
la S.C. anziché essere fedele interprete della legge, abbia
voluto sostituirsi al legislatore e per via
“interpretativa” abbia introdotto di fatto
l’istituto del testamento biologico. Istituto assente nel
nostro ordinamento, tanto è vero che nella scorsa
legislatura sono stati molti i disegni di legge presentati per
rendere lecito il c.d. testamento biologico.

A conclusione di questa riflessione, mi sovvengono le parole di
Gesù nel vangelo di al capitolo 25, rivolte a quelli che
stanno alla sua sinistra: “ho avuto fame e non mi avete dato
da magiare, ho avuto sete e non mi avete dato da
bere……” Se questo sarà il metro di
giudizio, è bene che la nostra società rifletta e per
quel che mi è possibile voglio affermare, anche
pubblicamente, che i giudizi pronunciati da quei tribunali in nome
del popolo italiano, non sono pronunciati in nome mio.

Pietro Brovarone






Circa l'autore