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Quattro ragioni per cui la legge Calabrò mortifica la professione medica e istituzionalizza la prassi Englaro

2011-07-15

Lettera al Direttore de ‘Il Foglio’: di Giorgio Carbone,
docente di bioetica presso la facoltà Teologica
dell’Emilia Romagna

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Al direttore – Non vorrei
rompere
le uova nel paniere di nessuno, ma non voglio
neanche fare l’irenista a tutti i costi. E vista la posta in
gioco non posso starmene zitto. Al di là delle nobili
intenzioni dei proponenti e dei relatori parlamentari, il disegno
di legge Calabrò, secondo il testo licenziato dalle
commissioni della Camera dei Deputati nel marzo scorso e che dopo
essere stato approvato martedì alla Camerà dovrà
essere votato dal Senato, sembra essere una “grande
trappola”. Non sta né a me né a te giudicare le
intenzioni umane, ma ogni cittadino che ama il bene comune della
nazione è chiamato a giudicare il contenuto di una proposta di
legge, per ciò che essa dice e per ciò che essa non
dice.



Gli argomenti usati per
favorire
tale disegno di legge sono molti, ne ricordo solo
alcuni: esso eviterebbe altri casi Englaro; riconosce la vita umana
come diritto inviolabile e indisponibile (art. 1, c. 1, a); afferma
che “alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui
la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere
mantenute fino al termine della vita” (art. 3, c. 5).

Dobbiamo leggere il ddl Calabrò, non solo per le affermazioni
di principio validissime e nobili, come quelle di cui
all’art. 1, ma anche alla luce di ciò che è detto
negli articoli successivi. Infatti, l’applicazione pratica
della legge 194/1978 insegna che l’articolato di una legge
speciale spesso limita o addirittura nega i principi solennemente
affermati all’inizio. Inoltre, dobbiamo considerare anche
ciò che il disegno normativo non dice. E, infine, ci dobbiamo
immaginare degli esempi concreti di applicazione.



1. Estensione del caso
Englaro


L’art. 2, c. 6 recita: “In caso di soggetto interdetto
il consenso informato è prestato dal tutore che sottoscrive il
documento”. L’art. 3, c. 3 recita: “Nella Dat
può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad
ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in
quanto di carattere sproporzionato o sperimentale”. Mentre
all’art. 3, c. 5 si dice che: alimentazione e idratazione
“devono essere mantenute fino al termine della vita”
(si noti che nel testo licenziato dal Senato si diceva che
“sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate
ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita”; si
noti anche che il testo ora in discussione dice
“mantenute”, il che è diverso dal dire
“devono essere iniziate”) e “non possono formare
oggetto di Dat”.

Facciamo ora il caso di un padre-tutore di un paziente-interdetto
di una patologia cronica, ma non in fase terminale, paziente che
domani avrà bisogno della Peg per l’applicazione della
quale si richiede intervento chirurgico poco invasivo con anestesia
locale. Se il padre-tutore ha redatto le Dat in cui rinuncia a
qualsiasi intervento che richiede anestesia anche locale, o a
qualsiasi operazione chirurgica; per quanto la Peg sia finalizzata
a idratare e alimentare, se il padre-tutore ha rinunciato e non
dà il consenso all’intervento chirurgico, il medico
coscienzioso non potrà fare nulla perché ai sensi
dell’art. 2, c. 1 “Salvo i casi previsti dalla legge,
ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso
informato esplicito e attuale del paziente prestato in modo libero
e consapevole”. Si ripeterà così il caso
Englaro.

Inoltre, ci sarebbe un’aggravante di gran lunga peggiorativa.
Mentre Beppino Englaro per raggiungere il suo obiettivo ha dovuto
ricorrere molte volte alla magistratura ordinaria, il disegno di
legge conferisce al tutore un diritto soggettivo di dare il
consenso o di esprimere una rinuncia e a questo diritto soggettivo
corrisponde il dovere da parte di terzi di rispettarne
l’efficacia. In ogni caso il titolare del diritto soggettivo
potrà agire in giudizio per ottenere l’applicazione di
quanto gli spetta.

Diciamo così: la prassi-Englaro, anziché essere eliminata
o arginata, ottiene un riconoscimento giuridico
generalizzato.



2. Silenzio circa ventilazione
artificiale


Altro fatto significativo è il silenzio circa la ventilazione
artificiale. Eppure si tratta sempre di atto di sostegno vitale
finalizzato a lenire il dolore, conseguente alla sensazione di
soffocamento.



3. La disponibilità della
vita


Come ricordato, il ddl Calabrò riconosce la vita umana come
diritto inviolabile e indisponibile (art. 1, c. 1, a): grande
affermazione di un principio cardine degli ordinamenti giuridici
occidentali. Tuttavia, se è vero che dare rilevanza giuridica
alle Dat e alla “rinuncia ad ogni o ad alcune forme
particolari di trattamenti sanitari” (così l’art.
3, c. 3) equivale ad ammettere che un cittadino possa disporre
della propria esistenza fisico-corporea, allora il ddl
Calabrò, conferendo rilevanza giuridico-sociale alla rinuncia
a ogni trattamento sanitario giudicato sproporzionato, di fatto e
di diritto cancella il principio dell’indisponibilità
della vita fisico-corporea, affermato solennemente all’art.
1, c. 1, a.



4. L’identità del
medico


Inoltre, l’art. 2, c. 1 recita: “Salvo i casi previsti
dalla legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo
consenso informato esplicito e attuale del paziente prestato in
modo libero e consapevole”. Oggi non vige questa norma, ma
già per molti interventi diagnostici e terapeutici i medici ci
chiedono il consenso, come è giusto che sia. Cosa cambia con
l’introduzione di questa norma? Viene giuridicizzato il
rapporto. Oggi è disciplinato dal Codice di deontologia
medica. Domani sarà un rapporto giuridico di tipo
contrattuale, opponibile a terzi, e soprattutto con quella norma
viene meno l’obbligo terapeutico, assistenziale del medico,
la cui contro-faccia è il reato di omissione di soccorso.
E’ vero che l’art. 2, c. 9 recita: “Il consenso
informato al trattamento sanitario non è richiesto quando la
vita della persona incapace di intendere e di volere sia in
pericolo per il verificarsi di una grave complicanza o di un evento
acuto” (è il caso degli incidenti stradali); ma in tutti
gli altri casi, dove il consenso è stato dato solo per qualche
intervento, oppure è stato espresso un rifiuto, il medico non
ha più l’obbligo giuridico di agire, pena il reato di
omissione di soccorso.

Introducendo l’art. 2, c. 1, la causa legittimante
l’atto medico diventerà esclusivamente il consenso del
paziente. Mentre adesso, come è stato affermato dalla
Cassazione con la sentenza n. 2437 del 18 dicembre 2008, la causa
che legittima il medico a intervenire sul paziente è
innanzitutto la sua missione e la sua competenza professionale e
poi il consenso informato.

La legge stravolge quindi ancora una volta l’identità
della professione medica: da professionista che agisce in scienza e
coscienza sulla base delle proprie competenze tecnico-scientifiche
sarà ridotto a esecutore – o come dicono già in
molti – operatore delle volontà altrui, anestetizzando
così la propria coscienza professionale.



E’ vero che c’è
bisogno di una legge
, ma è sufficiente di un solo
articolo: “Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni
Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New
York il 13 dicembre 2006, l’alimentazione,
l’idratazione e la ventilazione, nelle diverse forme in cui
la scienza e la tecnica posso fornirle alla persona umana, sono
doverose forme di sostegno vitale e finalizzate ad alleviare le
sofferenze fino alla fine della vita”.



di Giorgio Carbone, docente di
bioetica presso la facoltà Teologica dell’Emilia
Romagna






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