
Samantha D’Incà uccisa come Eluana Englaro: un’altra vittima dell’eutanasia di stato

- Samantha D’Incà, una giovane donna in stato vegetativo conseguente alle complicazioni di un intervento chirurgico, è morta dopo l’interruzione dell’alimentazione artificiale tramite PEG e un “percorso di accompagnamento alla morte” mediante sedazione profonda, durato diversi giorni: ciò a seguito della decisione del padre, nominato alcuni mesi fa amministratore di sostegno della figlia dal Tribunale di Belluno.
Sono evidenti le analogie con la vicenda di Eluana Englaro: entrambe le donne si trovavano in stato vegetativo, entrambe sono morte per decisione del padre quale tutore (Beppino Englaro) o amministratore di sostegno (Giorgio D’Incà); per provocarne la morte è stato necessario interrompere la nutrizione; la morte è sopraggiunta alcuni giorni dopo. Negli anni trascorsi, piuttosto, è stata perfezionata la tecnica dell’accompagnamento alla morte, operata oggi con la sedazione profonda, che ha garantito una morte senza sofferenza, forse anche più rapida. Oggi come allora i media affermano che, nei confronti della giovane, è stata “staccata la spina”; ma, anche questa volta, nessuna spina è stata staccata, nessun macchinario è stato spento: si è smesso di nutrire la paziente, operando perché morisse senza soffrire.
- Invece è differente il tempo trascorso dall’evento tragico che aveva determinato lo stato vegetativo alla morte: diciassette anni (1992 – 2009) per Eluana Englaro, un anno e quattro mesi (4 dicembre 2020 – 19 marzo 2022) per Samantha D’Incà: “merito” della legge n 219 del 2017, che ha permesso che con un unico provvedimento giudiziale – la nomina del padre ad amministratore di sostegno della figlia – allo stesso fosse dato il potere di concordare con i medici l’interruzione dei trattamenti e della nutrizione e la sedazione profonda fino alla morte. Il lasso di tempo sarebbe potuto essere ancora più breve: già due mesi dopo la caduta in stato di coma, il padre aveva chiesto al Giudice tutelare di essere nominato amministratore di sostegno per rifiutare ogni trattamento e solo la resistenza di alcuni medici, che volevano curare la paziente, ha ritardato la decisione del Giudice. La decisione è stata adottata senza alcun contraddittorio (la legge 219 non prevede la nomina di un curatore speciale che, per conto del paziente, possa opporsi alla richiesta dell’amministratore di sostegno) e il giudice ha sentito solo i familiari di Samantha, tutti favorevoli alla sua morte.
- Tutti d’accordo, quindi: anche il Comitato Etico, che aveva attestato la impossibilità, “al momento”, del miglioramento dello stato vegetativo, nel parere reso solo dieci mesi dalla caduta nello stato di coma; per una paziente che “è dipendente dalla assistenza (…), presenta una spasticità diffusa, non risponde a stimoli né verbali né visivi ed è nutrita artificialmente” non sono raccomandabili operazioni complesse (che pure erano state proposte) ed è suggerita “la desistenza dalla nutrizione artificiale”: un trattamento ormai “futile”, che “non risponde più al criterio del miglior interesse della persona” anche perché presentava complicanze.
- Si dice, però: “Samantha non avrebbe voluto restare in questa situazione”. Questa morte è un altro trionfo dell’autodeterminazione del paziente? Non era forse il testamento biologico (la DAT) lo strumento per far valere una volontà per il futuro? Samantha D’Incà non aveva redatto una DAT, ma questo non ha ostacolato la decisione del giudice né ha impedito la uccisione. La morte di Samantha D’Incà dimostra piuttosto che, in Italia, i disabili in stato di incoscienza e tutti coloro nei cui confronti può essere nominato un amministratore di sostegno rischiano di subire decisioni che porteranno alla loro morte: sarà sufficiente l’accordo tra i medici e l’amministratore.
- In occasione della discussione alla Camera del disegno di legge sul suicidio assistito e della decisione della Corte Costituzionale sul referendum radicale si è discusso accanitamente sulla possibilità di introdurre l’eutanasia in Italia, ma sembra dimenticato il punto in cui siamo già arrivati: come dimostra anche questa vicenda – non è la prima e ne seguiranno altre ‒ dietro la maschera dell’autodeterminazione terapeutica e del diritto di rifiutare le cure si nasconde un meccanismo che facilita in ogni modo la soluzione letale per le persone che appartengono a categorie ritenute inutili, costose, improduttive, scandalose: bambini malati, disabili fisici o mentali, malati cronici, anziani. La legge 219 ha permesso un grande balzo in avanti in questo percorso.
- Ogni essere umano, ogni persona, in qualsiasi condizione si trovi, ha una dignità intrinseca che lo Stato e la società non possono negare, favorendone la soppressione. Da decenni, ormai, abbiamo dimenticato questo principio basilare introducendo leggi di morte che contraddicono la ragione stessa della società umana.
22 marzo 2022