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L’uomo e l’eterno conflitto tra bene e male

L’uomo e l’eterno conflitto tra bene e male

 L’uomo e l’eterno conflitto tra bene e male

 Gian Pietro Soliani

31 luglio 2021

 1) Premessa

Sempre più spesso nell’ambito della filosofia morale il problema del bene e del male sembra essere stato accantonato, ma ciò non significa che nella nostra società non si stia cercando, in modo molto problematico, di riproporre dei surrogati del bene e del male in senso classico, spesso in modo ideologico e imponendo un “nuovo paradigma”. A questo proposito invito a leggere l’intervento, intitolato Etica globale: il nuovo paradigma, che l’arcivescovo Javier Lozano Barragán, allora presidente del Pontificio consiglio per la Pastorale della salute, tenne il 14 dicembre 2002 e nel quale è già indicata, con circa venti anni di anticipo, tutta una serie di nuovi valori e principî etici che ormai sono divenuti il “nostro pane quotidiano”[1].

 2) Bene e male

 Per affrontare il tema che mi è stato affidato occorre innanzitutto intendersi sulla distinzione tra bene e male. Il bene è nella sua definizione più ampia, cioè trascendentale[2], tutto il desiderabile in quanto perfezionatore della natura umana. Scrive Dante: «Ciascun confusamente un bene apprende / nel qual si queti l’animo, e disira» (Purgatorio, XVII, 127-129). In questo modo, facendo eco a una lunga tradizione, il poeta metta in luce che ognuno di noi aprendo gli occhi al mondo si trova affacciato su un bene che, seppure immediatamente indeterminato, attira stabilmente il suo desiderio.

Quando qualcosa viene riconosciuto come meritevole o degno di stima si dice che è un bene. Il bene, infatti, nella sua etimologia è ciò che rende beati (la radice indoeuropea DVE-). Si deve al cristianesimo l’aver superato il pensiero greco, affermando la bontà di tutto ciò che esiste. Come afferma Agostino, tutto ciò che è, in quanto è, è buono[3].

Il male è, invece, semplice privazione di un bene dovuto. Si tratta della corruzione di qualcosa che vede interrotto violentemente il proprio sviluppo, pur essendo indirizzato ad altro. Il male, quindi, non è la semplice limitazione di qualcosa, per la quale diciamo che x non è y, o per la quale diciamo che la natura di qualcosa non possiede alcune caratteristiche che non le appartengono. Non possedere le ali, ad esempio, è un limite della natura umana, ma non è di per sé un male. Sempre di più, invece, nella cultura odierna, il limite, di qualunque genere, viene identificato con un male che dovrebbe essere superato, secondo un motivo che è tipico del pensiero gnostico antico. È come se la realtà fosse intrinsecamente corrotta alla radice e andasse riprogettata o riprogrammata, superando e negando tutto ciò che si presenta come un limite (si pensi, ad esempio, al transumanesimo).

Bene e male non sono propriamente dei contrari. Affinché ci siano i due contrari si deve dare tra di essi una perfezione comune che in questo caso non si dà. Bene e male si oppongono rispettivamente come possesso e privazione (come ad es. la luce e le tenebre).

Da queste prime precisazioni si comprende che, se il bene è il desiderabile, il male è il non-desiderabile. Tutto ciò che è male, in quanto male, non può essere oggetto di desiderio da parte di alcuno, a meno che il male non si presenti sotto le sembianze o l’apparenza di un bene. Questo è possibile perché un male in forma assoluta non può esistere. Esso è sempre parassita del bene e non può consistere senza il bene.

 3) Libertà e felicità

 La tendenza del desiderio umano verso il bene, ossia verso qualcosa che soddisfi pienamente e stabilmente l’uomo, non soltanto temporaneamente e in modo limitato, è qualcosa di cui facciamo quotidianamente esperienza. Eppure, facciamo esperienza anche dell’impossibilità di soddisfare questa tendenza, poiché nella condizione in cui ci troviamo abbiamo sempre a che fare con beni molteplici e finiti che il nostro desiderio è costantemente portato a oltrepassare.

Scrive Dante:

Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e credela trovare più oltre. Per che vedere si può che l’uno desiderabile sta dinanzi all’altro alli occhi della nostra anima per modo quasi piramidale, che ‘l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta dell’ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di tutti. Sì che, quanto dalla punta ver la base più si procede, maggiori apariscono li desiderabili; e questa è la ragione per che, acquistando, li desiderii umani si fanno più ampii, l’uno appresso dell’altro, poi un bel vestimento, poi il cavallo, poi una donna e poi ricchezza non grande e poi grande e poi più (Convivio IV, XII, 14-16).

Il poeta fiorentino mente in luce la continua ricerca, nelle diverse fasi dell’età dell’uomo, di un bene finito che lo soddisfi e che sia adeguato alle proprie aspettative. Tuttavia, la finitudine intrinseca di questi bene è anche ciò che costringe il desiderio a non fermarmi nella ricerca, finché non riconosca nel Bene infinito, il proprio approdo ultimo.

Il male morale nella sua natura consiste nel tentativo umano di elevare un bene finito al rango di bene infinito, volendo in fondo ricreare un ordine nuovo diverso e contrario a quello presente. Questa possibilità, quotidianamente aperta nella vita degli esseri umani, è consentita dalla libertà, la quale si radica in questo gioco/dialettica tra desiderio di un bene illimitato ed esperienza dei beni finiti che si offrono a soddisfazione dei nostri bisogni. Infatti, noi non scegliamo l’oggetto del nostro desiderio (l’orizzonte del bene infinito), ma possiamo scegliere tra i beni finiti e molteplici che quotidianamente si offrono alla nostra volontà, proprio perché finiti e, quindi, valutabili ed eligibili rispetto ad altri bene finiti. Per questo, già Aristotele ci dice che l’oggetto proprio della volontà non si può scegliere, ma i beni finiti sono oggetto di valutazione e di scelta.

Assolutizzazione della volontà – Nel linguaggio scolastico medievale, la tendenza verso il bene infinito è chiamata “appetito naturale” (appetitus naturalis; voluntas ut natura), mentre la tendenza libera verso i beni finiti oggetto di scelta è detta “appetito razionale” (appetitus intellectivus sive rationalis; voluntas ut deliberata). Se, nel pensiero di Tommaso d’Aquino, questi due appetiti trovano una loro felice coordinazione, essendo l’appetito naturale condizione necessaria dell’appetito razionale, a partire dalla fine del XIII secolo i due appetiti cominciano ad essere concepiti come antagonisti (in particolare, ad opera dei francescani Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Ockham). Allo stesso modo, la volontà viene separata dall’intelletto ed esaltata per la propria capacità di autonomia e autodeterminazione nei confronti del giudizio intellettivo. L’intelletto può giudicare che una certa azione sia moralmente malvagia, ma la volontà sarà sempre libera di rifiutare un tale giudizio, rivolgendosi a un qualche bene piacevole o utile, sebbene immorale[4]. Si tratta di una assolutizzazione della volontà libera che diviene l’unica radice e la vera protagonista dell’agire etico. L’intelletto è soltanto una precondizione necessaria dell’attività volitiva.

Una nuova visione di Dio – Parallelamente, muta la concezione di Dio e il modo di guardare alla felicità. Dio viene visto come un sovrano assoluto che promulga delle leggi morali alle quali non è sottoposto e che può costantemente trasgredire. Dio non agisce secondo una logica che la razionalità umana può ancora cercare e conoscere, ma è volontà assoluta che fa ciò che vuole. Secondo questa impostazione, la realtà non è buona perché intrinsecamente desiderabile, ma è buona perché voluta dall’insindacabile decreto di Dio che la volontà umana può accettare oppure rifiutare, ma non può comprendere nemmeno in parte, perché ormai la razionalità è divenuta incapace di cogliere la trama ideale nel reale.[5]

Una concezione degradata di felicità – Allo stesso modo, il concetto di felicità, per come l’uomo può attingerlo con le sue forze razionali, viene degradato a una mera mancanza di dolore fisico o psichico. La felicità non è più concepita dall’intelligenza come l’incontro e la relazione stabile di amicizia con una persona che è insieme Verità e Bene sommo. Quest’ultima sarebbe solo la felicità della fede. Il concetto degradato di felicità è lo stesso che ritroviamo nella teoria politica di Thomas Hobbes (cfr. Leviatano, VI) e in diversi pensatori della Modernità. Immanuel Kant criticherà questa idea di felicità (Fondazione della metafisica dei costumi, Prefazione) per costruire un’etica che metta al centro soltanto il dovere morale. Al contrario, tra i contemporanei di Hobbes, John Locke riprenderà un concetto di felicità del tutto simile a quello di Aristotele e Tommaso d’Aquino (cfr. Saggio sull’intelletto umano, Lib. II, cap. 21), iniziando una tradizione di cui sono eredi C.S. Lewis, Chesterton e J.H. Newman.

Le concezioni degradate di libertà e felicità che abbiamo ereditato affondano le loro radici in questo passaggio storico che inizia con il Tardo Medioevo. La Modernità e la Contemporaneità non hanno fatto altro che far entrare nella mentalità corrente quelle concezioni, senza discuterle troppo. Il desiderio strutturale dell’uomo per un Bene infinito con il quale entrare stabilmente in rapporto, per mezzo di un sempre più perfetto possedersi mediante l’esercizio delle virtù, viene oscurato in favore di una libertà la cui natura sembra consistere esclusivamente in una capacità di opposizione e di superamento di ogni possibile vincolo, reale o supposto che sia. La volontà non ha più come proprio referente il bene, ma un orizzonte indifferente (come diranno alcuni teologi scolastici del XVI e XVII secolo) che è “al di là del bene e del male”, per usare un’espressione di Nietzsche. La concezione dominante dell’epoca presente consiste nel poter fare ciò che si vuole senza alcun vincolo, eccetto, si dice, quello costituito dalla libertà dell’altro. È chiaro che un vincolo può essere rappresentato anche dalla realtà stessa, nella forma ad esempio, della differenza sessuale. Per questo, sono così importanti le narrazioni e le parole ideologiche. Con esse si pensa di ricreare la realtà, affinché la libertà assoluta di ciascuno sia supportata pubblicamente, politicamente e anche giuridicamente.

Al contrario, proprio per la struttura antropologica che è il desiderio di felicità e da cui scaturisce il principio generalissimo secondo il quale “il bene è da perseguire, mentre il male è da evitare” (sinderesi), la libertà è innanzitutto libertà per il bene. La libertà fiorisce soltanto nel compimento del bene. Essa non è innanzitutto e soltanto libertà di scelta. Scrive Anselmo d’Aosta nel De libero arbitrio che “la potenza di peccare non è libertà di arbitrio e nemmeno parte della libertà”. Oggi, al contrario, la libertà è intesa soprattutto come libertà di scelta svincolata dal bene; o meglio, il riferimento al bene resiste implicitamente, ma si tratta soltanto di un bene del tutto individualistico e soggettivo che consiste nel far prevalere «l’Io e le sue voglie»[6], sebbene nei limiti delle leggi e della libertà degli altri. È chiaro, però, che le leggi possono e devono essere cambiate nel momento in cui si presentino come un vincolo per una tale concezione di libertà. Allo stesso modo, anche la libertà dell’altro può essere limitata per lo stesso motivo (si pensi a chi intende rendere illegale l’obiezione di coscienza per i medici).

 4) Sinderesi e coscienza morale

 Il termine synderesis o synteresis, da cui il nostro italiano “sinderesi”, sembra rappresentare una corruzione del termine greco syneídesis da cui il latino conscientia e l’italiano “coscienza”. All’origine di tale corruzione vi sarebbe il monaco Rabano Mauro (sec. IX), il quale riprende la Glossa di San Girolamo ad Ezechiele[7]. Quest’ultima, come è noto, è la fonte principale dalla quale attingono i medievali. Tuttavia, è da notare che nessun manoscritto della glossa di San Girolamo ad Ezechiele riporta i termini synderesis o synteresis, ma solo syneidesis o termini riconducibili a questo e dovuti a errori di copiatura[8]. Il termine synderesis o synteresis, poi riappare nel XII secolo con un certo Magister Udo, primo commentatore conosciuto delle Sentenze di Pietro Lombardo. Sembrerebbe, quindi, doversi ammettere che il primo significato di sinderesi sia proprio “coscienza”. In San Girolamo il termine syneídesis sembrerebbe indicare una tendenza a conservare la propria natura, che nell’uomo è natura propriamente razionale. Del resto, Seneca e Cicerone avevano tradotto il greco syneidesis proprio con conservatio. Tra gli antichi greci (ad es. Euripide) e nella Bibbia dei Settanta, syneidesis sembra indicare la capacità di provare vergogna per il male commesso. Infine, nella traduzione latina della Bibbia il greco syneidesis è tradotto con conscientia [9].

Questa confusione storica tra “sinderesi come coscienza” e “sinderesi come principio della legge morale naturale” è molto interessante. Infatti, il luogo in cui prendiamo consapevolezza del legame tra il desiderio e l’orizzonte infinito del bene/desiderabile è proprio la coscienza morale (cum-scire: un sapere che è in riferimento con la legge morale). In particolare, ciò che chiamiamo coscienza morale è quello sguardo affettivo sulle cose che ci fa capaci di guardare ogni realtà anche dal lato della sua desiderabilità, emettendo su di essa un giudizio di valore. Il tedesco, come è noto, distingue tra una coscienza intesa genericamente come consapevolezza (Bewusstsein) e una coscienza propriamente morale (Gewissen).

Ad ogni modo, proprio perché la coscienza è relazione a un orizzonte infinito non può esistere una coscienza irrimediabilmente chiusa, anche se è possibile che il soggetto scelga consapevolmente di chiudersi, con un ripiegamento su se stesso, vedendo solo ciò che vuole vedere e rinunciando a vedere tutto quello che c’è da vedere. In quest’ultimo caso si tratta del fenomeno della malafede, così magistralmente descritto da Jean-Paul Sartre ne L’essere e il nulla. Colui che è in malafede finge di non sapere ciò che in realtà sa.

Ora, come la coscienza, presa nel senso generalissimo di consapevolezza, è relazione all’orizzonte dell’essere, il quale a sua volta è strutturato da alcuni principi primi, tra i quali il principio di non contraddizione; così la coscienza morale è relazione all’orizzonte trascendentale del bene, strutturato secondo la legge morale. Inoltre, come la coscienza in generale si articola in un aspetto intuitivo (l’evidenza dell’essere) e in un aspetto applicativo (il giudizio); così la coscienza morale si articola allo stesso modo. L’aspetto intuitivo, cioè originario, della coscienza morale è la cosiddetta sinderesi (bonum est faciendum malum vitandum) – l’aver presente la legge morale come ciò che accompagna il nostro agire –; mentre l’aspetto applicativo è quello che nel linguaggio quotidiano chiamiamo solitamente coscienza, come capacità di giudicare i nostri atti o gli atti altrui in riferimento alla legge morale. A questo proposito, Tommaso d’Aquino è chiaro nel dire che la prima regola delle azioni umane non è la coscienza, ma piuttosto la sinderesi, essendo la coscienza, piuttosto, una regola regolata (regula regulata). Per questo, non deve meravigliare che la coscienza possa anche errare.

 5) La libertà di coscienza

 Solo a partire dal quadro che abbiamo brevemente tracciato si può inserire la questione della libertà di coscienza. Se, infatti, la coscienza è innanzitutto un vedere, parlare di libertà di coscienza significa affermare il principio per il quale nessuno può sostituirsi a me nel vedere quello che c’è da vedere. Questo non significa, però, che non si possa essere aiutati ed educati a vedere sempre meglio o che non si possa vedere insieme. Sull’insostituibilità nel vedere si basa l’idea del primato della coscienza.

A questo proposito, si apre il problema della coscienza erronea. Secondo Tommaso d’Aquino: «ogni volere discordante dalla ragione, sia retta sia erronea, è sempre peccaminoso». Questo perché è possibile che la ragione – in questo contesto, equiparata da Tommaso alla coscienza – presenti qualcosa di assolutamente buono (ad esempio, “Credere in Cristo”) come un male, e viceversa. A quel punto, la volontà che non segue il giudizio della ragione diviene peccaminosa. Se non che, Tommaso distingue, poi, tra coscienza retta e coscienza erronea. In quest’ultimo caso, non vi è peccato solo se l’errore della coscienza è dovuto a una ignoranza assolutamente involontaria. Diverso, invece, il caso nel quale l’errore della coscienza sia dovuto a ignoranza volontaria (non voler sapere tutto quello che c’è da sapere) o a negligenza (so che potrei sapere di più, ma non faccio nulla per sapere).

Dalle cose che abbiamo detto fin qui, la coscienza emerge, non come un vago sentimento privo di razionalità e meramente soggettivo, ma piuttosto come il principio che ci permette di vedere come stanno realmente le cose. Del resto, essa non è fatta per il dubbio, ma per la verità. Il dubbio (dal latino duplum), infatti, si struttura come una disgiunzione, in aut, di due cose o stati di cose – A e il suo complemento semantico non-A – opposti per contraddizione e tra i quali liberamente scegliere. Il dubbio stesso, insomma, si struttura solo grazie ai primi principi (segnatamente al principio di non-contraddizione nella variante del principio del terzo escluso) che sono la forma stessa della verità. Il dubbio rappresenta una situazione che può essere solo temporanea e non è strutturale per la coscienza. Se la coscienza fosse fatta per il dubbio, essa si troverebbe in una situazione di perenne angoscia, di «eterno affanno», dalla quale desidererebbe costantemente fuggire. Ed è esperienza comune che è dall’indesiderabile – ossia dal male – che si fugge, non dal bene. Anche chi sostiene uno scetticismo radicale non è in grado, nella pratica, di mantenere fede a ciò che sostiene, scegliendo costantemente ciò che ritiene essere un bene per sé. Oltretutto, quel bene scelto, prima o poi, si rivelerà come un vero bene o come un male, cioè come qualcosa di veramente desiderabile o come qualcosa che, invece, avrebbe meritato fin dall’inizio il nostro rifiuto.

La verità che emerge nella coscienza è anche ciò che consente una relazione buona con l’autorità. Scrivendo del primato della coscienza nel pensiero del santo cardinale Newman (protettore dei nascituri e delle mamme in gravidanza), Joseph Ratzinger afferma: «per Newman il termine medio che assicura la connessione tra i due elementi della coscienza e dell’autorità è la verità. Non esito ad affermare che quella di verità è l’idea centrale della concezione intellettuale di Newman; la coscienza occupa un posto centrale nel suo pensiero proprio perché al centro c’è la verità. In altre parole: la centralità del concetto di coscienza è in Newman legata alla precedente centralità del concetto di verità e può essere compresa solo a partire da questa»[10].

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[1] L’intervento è disponibile per la lettura al seguente link: https://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/hlthwork/documents/rc_pc_hlthwork_doc_20021214_barragan-med-med_it.html

[2] Trascendentale significa in questo caso infinita, perché estesa a tutto il campo dell’essere. Si tratta di un infinito di tipo particolare, ossia determinabile, ma non incrementabile. In questo senso si distingue da altri tipi di infinito: Dio, il transfinito matematico e l’infinito potenziale aristotelico. Cfr. Pagani P. (2014), Sull’attualità del concetto di “anima”, in AQUINAS, vol. LVI 2013, pp. 425-439

[3] Agostino d’Ippona, De vera religione, 11, 21.

[4] Faccio riferimento alla distinzione aristotelica tra bene morale, bene piacevole e bene utile a cui corrisponde specularmente la distinzione tra male morale, male spiacevole, male inutile.

[5] Benedetto XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni (Discorso di Ratisbona), 12 settembre 2006: «Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore, come dice Paolo, “sorpassa” la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo „λογικη λατρεία“ – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).[10]

[6] Card. Joseph Ratzinger, Omelia per la Missa pro eligendo Pontifice, 18 aprile 2005.

[7] San Girolamo, Commentarium in Ezechielem, I, PL 110, col. 508: «Quartamque ponunt quae super haec et extra tria est, quam Graeci vocant συντήρησιν quae scintilla conscientiae in Cain quoque pectore postquam ejectus est de paradiso non extinguitur, et qua victi voluptatibus vel furore, ipsaque interdum rationis decepti similitudine, nos peccare sentimus».

[8] Cfr. gli ormai classici R. Leiber, Name und Begriff der Synteresis in der mittelalterlichen Scholastik, in «Philosophisches Jahrbuch», XXXV (1912), pp. 372-392 e J. De Blic, Syndérèse ou conscience?, in «Revue d’ascétique et mystique», XXV (1949), pp. 46-57 dove vengono studiati numerosi manoscritti della Glossa di Girolamo ad Ezechiele.

[9] Per una rassegna dell’utilizzo del concetto di sinderesi tra gli scolastici del XII e XIII secolo si veda: O. Lottin, Psychologie et morale aux XII et XIII siècles, Duculot, Gembloux 1948, t. II, P. I, pp. 103-118; M. Leone, Sinderesi. La conoscenza immediata dei principi morali tra Medioevo e prima Età Moderna, Aracne, Roma 2020.

[10] J. Ratzinger, Elogio della coscienza: il brindisi del Cardinale, in «Il Sabato», 16 marzo 1991.

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