
La lezione degli Usa: DAT inefficaci
di Tommaso Scandroglio su ‘La Bussola quotidiana’
Ma queste
Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT) di cui tanto si
parla, se un giorno entrassero di uso comune anche nel nostro Paese
funzionerebbero? Oppure sono uno strumento pericoloso che
contraddice il tanto amato principio di
autodeterminazione?
Una risposta indiretta a queste domande può venire
dall’esperienza degli Stati Uniti, dove le DAT fecero la loro prima
comparsa nel lontano 1967. Quindi la competenza dei medici
statunitensi in questo settore può vantare più di 40
anni di esperienza. Un pool di esperti – Puccetti, Del
Poggetto, Castigliola, Di Pietro – ha pensato bene di
verificare se le DAT made in Usa, che da loro si chiamano living
will, siano efficaci oppure no. Per far ciò i nostri esperti
sono andati a spulciarsi ben 690 articoli scientifici che parlano
di DAT.
Prima di illustrare gli esiti di questa ricerca ricordiamo cosa
sono queste dichiarazioni anticipate. Si tratta di un documento in
cui un soggetto indica i trattamenti sanitari a cui vuole o non
vuole essere sottoposto nel caso in cui insorgesse una grave
patologia e non fosse più capace di esprimere un consenso
valido, cioè non fosse più capace di intendere e
volere. Nelle DAT si può altresì indicare il nome del
fiduciario che darà concreta attuazione alle volontà
espresse. Ma ora andiamo a scoprire se queste DAT sono utili o
dannose per il paziente che non è più
cosciente.
Le DAT non esprimono un consenso
attuale.
La domanda di fondo che ci dobbiamo porre è la seguente: le
volontà espresse nelle DAT sono quelle che il paziente
esprimerebbe se fosse cosciente oppure c’è il fondato
sospetto che potrebbe aver cambiato idea? La risposta giusta
è la seconda. Il 30-40% di pazienti colpiti da grave
patologia cambia idea rispetto alle cure a cui vorrebbe o non
vorrebbe essere sottoposto nell’arco temporale che parte dal
momento in cui è insorta la malattia fino a 7 anni dopo. I
sostenitori delle DAT rispondono che ciò non fa
difficoltà perché le DAT possono anch’esse
mutare contenuto con il mutare delle decisioni
dell’estensore. Purtroppo c’è un problema.
Nell’80% dei casi i pazienti non si rendono conto che
ciò che loro pensano è diverso da ciò che
è scritto nelle DAT: cioè non si rendono conto di
aver cambiato idea. Ma se non ti sei accorto di aver cambiato idea
mai deciderai di cambiare il contenuto delle DAT.
Oltre a ciò i ricercatori evidenziano che la pigrizia nel
mettere mano alle DAT gioco un ruolo significativo. A tutto
ciò si aggiunge il fatto che c’è un intuibile
disagio psicologico nel voler riscrivere un documento che
può determinare la nostra morte. E quindi si preferisce
rimandare a domani e domani ancora. Ma forse domani sarò in
coma e non potrò più modificare le mie DAT. In buona
sostanza queste dichiarazioni congelano le volontà del
paziente nel passato, non riuscendo ad attualizzarle. In un passato
poi in cui nella maggior parte dei casi si era in salute. E qui
c’è un altro inciampo: una cosa è decidere
della propria sorte quando si è sani, un’altra quando
sai che stai per morire, frangente in cui nella maggior parte dei
casi ci si aggrappa con tutte le proprie forze alla vita.
L’eutanasia viene chiesta dai sani, non dai moribondi.
La sfera di
cristallo.
Con le dichiarazioni anticipate decido oggi per il domani, quindi
io estensore devo aver un grande capacità predittiva in
ordine a tutte le patologie serie o letali possibili e immaginabili
e a tutte le relative cure a cui verrò sottoposto nel
futuro. Un’impresa davvero impossibile. Oltre a ciò
alcuni trattamenti che si vogliono rifiutare perché
considerati inefficaci nell’oggi, in futuro con il progresso
della tecnica potrebbero diventare efficaci. Si obietta: che si
preveda l’estensione delle DAT solo a patologia in corso.
Controbiezione: se decidi quando sei malato (es. tumore, Aids) la
tua libertà è fortemente condizionata dal dolore e
dalla paura, sei schiavo della sofferenza e non puoi decidere
lucidamente sul tuo miglior bene. Sotto tortura non si è
liberi.
I tecnicismi.
C’è poi il problema della difficoltà di
comprendere esattamente i termini tecnici da parte degli estensori
delle DAT. In un’indagine inglese è emerso che il 50%
delle persone intervistate non conosce la differenza tra arresto
cardiaco e infarto. Più del 97% ha idee erronee
sull’efficacia della rianimazione cardiopolmonare (in genere
è sovrastimata). Nel 50% dei casi in buona sostanza il
paziente ha preso Roma per Toma, cioè non ha compreso
esattamente tutti i termini tecnici e le conseguenze cliniche del
rifiuto di certi trattamenti. Senza dimenticare che le conseguenze
dell’interruzione di certe terapie vengono discusse con il
medico solo in un caso su tre. I ricercatori poi hanno notato un
dato curioso e insieme preoccupante: le percentuali di coloro i
quali ritengono che la rianimazione sia miracolosa è molto
simile alla percentuale dei successi di tali pratiche nelle serie
televisive quali ER.
L’intervento del medico non
aiuta.
Si risolve tutto redigendo le DAT con l’assistenza di un
medico? Pare di no. Innanzitutto si è scoperto che il tempo
medio di colloquio con il medico è di 5 minuti e 40 secondi:
eh sì, meno di sei minuti per decidere della propria vita.
Poi l’intervento del medico in realtà complica la
situazione e di certo non la semplifica. Infatti è stato
messo in evidenza che le modalità di informazione
influiscono moltissimo sul contenuto delle DAT: in buona sostanza
si corre il rischio che sia il medico a scrivere le Dat e non il
diretto interessato. Quasi nell’80% dei casi infatti i
pazienti cambiano idea a seconda di come ricevono le informazioni:
stesse informazioni producono diverse decisioni se comunicate in
modalità differenti. Senza poi contare che se le DAT vengono
redatte in uno stato depressivo, tipico di chi ha una prognosi
infausta, le volontà eutanasiche schizzano verso
l’alto. Insomma è comprensibile che siamo tutti molto
suggestionabili dagli altri e dell’ambiente se
c’è di mezzo la nostra salute.
Il fiduciario da
sfiduciare.
Di fronte a tutti questi ostacoli ci si appella alla figura del
fiduciario, credendo che grazie a lui si possa superare ogni
difficoltà. Ma anche in questo caso le cose non stanno
così. A detta degli stessi estensori delle DAT il
fiduciario, quasi in un caso su tre, ha la tendenza ad interpretare
in modo erroneo le volontà espresse nelle DAT. Questa
percentuale di azzeccare gli intenti dell’estensore è
pari a quella che abbiamo tirando a sorte. Così il
ricercatore Luois Collins: “La comprensione da parte del
fiduciario delle preferenze del paziente è risultata solo
lievemente migliore del tirare a caso”.
Il fiduciario poi tende a dare l’assenso a staccare la spina
con più facilità quanto più il paziente
è grave, al di là di ciò che c’è
scritto nelle DAT. Inoltre si è visto che il fiduciario in
merito ai trattamenti di sostentamento vitale più che
rispettare le volontà del paziente tende a proiettare su di
lui i suoi desideri, insomma inconsapevolmente è portato a
sostituirsi a lui. Inoltre la pressione psicologica dei parenti e
amici del paziente gioca un ruolo determinante nelle decisioni del
fiduciario. Senza poi contare che se c’è di mezzo
un’eredità la tentazione di veder accorciate le
sofferenze del moribondo grazie a pratiche eutanasiche è
molto alta.
Pollice verso da parte dei
medici.
I medici si fidano delle DAT? No per nulla. Infatti nella ultra
liberale Danimarca i registri delle DAT vengono consultati
“sempre” solo nel 1% dei casi e “spesso”
nell’11%. Perché tanta diffidenza? Per i seguenti
motivi. Primo: difficoltà ad applicare alla reale situazione
clinica del paziente i contenuti inevitabilmente vaghi delle
DAT. In una ricerca si è messo in evidenza ad esempio
che solo nel 3,9% dei casi le istruzioni presenti nelle DAT
risultarono appropriate alla situazione reale del malato. Secondo:
la tendenza dei sanitari ad escludere che non si possa più
tentare niente per salvare il paziente, nonostante le indicazioni
di segno contrario delle DAT. Terzo: la grande difficoltà di
trovare tempestivamente i fiduciari.
Non ci credono nemmeno i
pazienti.
Se poi chiediamo agli estensori delle DAT: ma vuoi davvero che le
tue volontà siano rispettate letteralmente oppure preferisci
che ci sia una certa libertà di manovra da parte di
familiari e medici? Tra il 60 e quasi il 90% dei casi nelle DAT
è previsto che medici e familiari non siano ammanettati a
ciò che c’è scritto in questo documento,
preferendo che tali soggetti agiscano liberamente, senza molti
vincoli e secondo coscienza. Segno evidente questo che gli stessi
diretti interessati hanno poca fiducia nelle dichiarazioni
anticipate.
Verso l’abbandono
terapeutico.
Le DAT soprattutto per i pazienti anziani incentivano poi una
diminuzione dell’ospedalizzazione. In buona sostanza se hai
redatto le DAT è più probabile che ti ricovereranno
nemmeno. Se invece hai fortuna e vieni ricoverato, ad esempio per
infarto o ictus, e nel caso in cui il medico decidesse di seguire
le DAT il risultato è quasi l’abbandono terapeutico
portando a morte chi si sarebbero potuto salvare, senza tra
l’altro riportare conseguenze gravi sul piano della propria
salute.
Concludendo.
Chiudiamo cedendo la parola prima ad una task force
dell’American Academy of Neurology che ha steso le linee
guida per la terapia dei pazienti con SLA, sindrome da cui era
affetto Pier Giorgio Welby: “Non sono state identificate
prove che le DAT migliorino la qualità di vita in alcuna
malattia”. Ed infine al ricercatore James Tulsky:
“Dobbiamo superare le direttive anticipate per soddisfare
veramente i bisogni dei pazienti assumendo decisioni
difficili”.