
Analisi del progetto di legge sul testamento biologico approvato dal senato il 26 marzo 2009
di Giacomo Rocchi
- Le ragioni di una
legge.
Prima di analizzare il testo è
necessario tornare alle origini: ai motivi per cui è stata
ritenuta necessaria l’approvazione di una legge sul
testamento biologico (o dichiarazioni anticipate di
trattamento).
Quali erano le esigenze, le urgenze che
spingevano all’adozione di una norma? La prima è stata
senza dubbio la necessità di evitare che quanto accaduto a
Eluana Englaro si ripetesse nei confronti di altri soggetti che si
trovano o si troveranno nella sua stessa condizione (stato
vegetativo): questa, almeno, è la volontà manifestata
dalla maggioranza parlamentare che ha approvato il testo al Senato
(e di cui fa parte il relatore, sen. Calabrò).
Vi erano altre esigenze? Analizziamo il
nuovo titolo: “Disposizioni in materia di alleanza
terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di
trattamento” dobbiamo evidentemente ritenere di
sì.
In effetti nella vicenda di Eluana
Englaro non vengono in evidenza né un problema di
alleanza terapeutica (ella non ha mai avuto alcun rapporto
con i medici relativamente alla patologia che l’ha colta e
nemmeno il padre ha fondato le sue decisioni e le sue azioni sulla
base di un rapporto con i medici, strumentalizzati solo al fine di
procurare la morte alla figlia), né un problema di
consenso informato (nessuno ha mai contestato la
legittimità delle terapie d’urgenza a suo tempo
erogate ad Eluana Englaro), né, infine, di dichiarazioni
anticipate di trattamento che Eluana Englaro – come
è pacifico – non ha mai fatto, né oralmente
né per iscritto.
Più in generale viene da
chiedersi quali risultati voglia ottenere il
legislatore.
Forse ha sentito gli anziani che
affollano gli ambulatori e li ha sentiti lamentarsi che il medico
di base, prima di prescrivere loro la medicina per i loro malanni,
non li informava adeguatamente e non faceva firmare loro il foglio
del consenso informato?
Forse ha sentito coloro che devono
sottoporsi ad interventi seri e ha colto, come esigenza principale,
il fatto di non essere stati adeguatamente informati di quanto
sarà fatto dai chirurghi sul loro
corpo?
Non è che anziani o operandi
hanno chiesto, piuttosto, ambulatori e ospedali meglio attrezzati,
medici più motivati e specializzati, infermieri più
premurosi, cibo delle mense mangiabile
…
Lo sanno tutti: se la maggioranza avesse
voluto impedire “un’altra Eluana” avrebbe scritto
una legge molto semplice e molto corta: “È vietato
interrompere la nutrizione e l’idratazione erogata con mezzi
artificiali ai soggetti in stato vegetativo”.
Tutti sanno anche un’altra cosa:
l’unico punto che interessa a maggioranza e opposizione
è la regolamentazione della morte procurata dei soggetti
incoscienti: se è possibile, quando è
possibile, con quali presupposti è possibile,
chi potrà disporla, chi dovrà
eseguirla, chi ne sarà esentato.
Tutto il resto è fumo: a nessuno
interessa sapere se il genitore del figlio minore deve dare il
consenso per un apparecchio dentistico, o se il medico può
rifiutarsi di erogare cure “naturali” e inefficaci ad
un paziente “fissato”, o se il medico di base, prima di
scrivere la ricetta di un antibiotico al bambino o
all’anziano, chiederà alla madre o al paziente:
“preferisce il prodotto X o Y?”.
Riconosciamo, quindi, già nel
titolo del progetto di legge quell’ipocrisia che ben
conosciamo da quando è stata approvata la legge 194
sull’aborto: dell’alleanza terapeutica e del consenso
informato (così come della tutela della maternità) al
legislatore non interessa nulla (se non nella misura in cui serve a
raggiungere lo scopo principale).
Tutti sappiamo che, se di un medico non
siamo soddisfatti, perché non è abbastanza disposto
ad ascoltarci e a consigliarci o se diffidiamo della sua reale
capacità professionale, possiamo cambiarlo e scegliere un
altro; così come tutti sappiamo che il medico di cui noi ci
fidiamo, quando gli porremo domande più approfondite su
malattia, analisi, medicinali e cure, non avrà
difficoltà a spiegarci più in dettaglio il motivo
delle sue scelte.
Ciò che interessa, quindi, sono
le dichiarazioni anticipate di trattamento: o meglio, solo quella
parte del testamento biologico che farà sì che il
soggetto incosciente venga lasciato morire o sia curato e possa
continuare a vivere (eventualmente anche contro o a prescindere da
una volontà precedentemente manifestata).
- Il divieto di
accanimento terapeutico.
In realtà, poiché lo scopo
di una legge sul testamento biologico (come dimostrano ampiamente
le esperienze di altri paesi che le hanno introdotte) non è
affatto (o almeno: quasi per nulla) quello di far sì che il
medico rispetti le volontà espresse in precedenza da un
paziente divenuto incosciente, ma piuttosto quello di permettere
– a prescindere da un’espressione di volontà
dell’interessato – la soppressione dei soggetti in
stato di incoscienza mediante la mancata erogazione delle terapie
salvavita e dei sostegni vitali, vale la pena di cercare subito
quelle disposizioni che puntano direttamente al risultato e che
dimostrano come la autodeterminazione dell’individuo sia un
valore ritenuto del tutto secondario.
All’art. 1 lettera f) la legge
“garantisce” che, “in caso di pazienti in stato
di fine vita o in condizione di morte prevista come imminente, il
medico debba astenersi da trattamenti sanitari straordinari, non
proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto
alle condizioni cliniche del paziente od agli obiettivi di
cura.”
Il divieto è assoluto: sono
scomparsi gli altri riferimenti al divieto di accanimento
terapeutico, tranne quello dell’art. 6 comma IV, secondo cui
il fiduciario di colui che ha redatto delle dichiarazioni
anticipate di trattamento, deve vigilare per evitare che “si
creino situazioni sia di accanimento terapeutico, sia di abbandono
terapeutico”. Sembra quindi assodato che il tema del divieto
di accanimento terapeutico sia estraneo a quello delle
dichiarazioni anticipate di trattamento che devono “essere
conformi a quanto prescritto dalla legge e dal Codice di
Deontologia medica” (art. 3 comma 2) e, quindi, non possono
contrastare con il divieto stesso.
Il verbo “garantire” e la
natura oggettiva del divieto – non dipendente né dalle
convinzioni del medico curante, né dalla volontà del
paziente – comporta la possibilità di controllo
giudiziale sulle terapie erogate al paziente: il paziente
(così come fece Welby) potrà agire, in ragione del
suo diritto a non essere sottoposto a terapie integranti
accanimento terapeutico, chiedendo che le stesse cessino; e
(soprattutto) analoga azione potrà essere promossa dai
tutori degli interdetti, dai genitori dei minori, dagli
amministratori di sostegno, dai fiduciari di coloro che hanno
sottoscritto dichiarazioni anticipate di trattamento (articolo 5
comma 4); d’altro canto un medico o una Direzione sanitaria
potrà rifiutarsi di procedere a determinati trattamenti
sanitari richiesti dal paziente o dai suoi familiari se
riterrà che essi integrino un accanimento
terapeutico.
I medici, quindi, saranno sotto
controllo e a rischio di azione giudiziale (e di
responsabilità disciplinare nel caso, ad esempio, abbiano
posto in essere terapie nell’ambito di un ospedale).
Questo sistema avrebbe senso se il
concetto di accanimento terapeutico fosse agganciato alla fase
terminale di una malattia: ad esempio se il concetto fosse del
tipo: “l’erogazione, ad un paziente in stato terminale,
di terapie di carattere straordinario e comunque di interventi
terapeutici o diagnostici inutili o superflui rispetto
all’andamento del processo in corso. I trattamenti di
sostegno vitale di nutrizione, idratazione o ventilazione forzata
non costituiscono accanimento terapeutico, salvo quando sono
oggettivamente incompatibili con lo stato fisico del morente e gli
procurino inutili sofferenze”. Il Consiglio Superiore di
Sanità (parere 20/12/2006), negando che la respirazione
artificiale erogata a Welby configurasse accanimento terapeutico,
definì l’accanimento terapeutico “la
somministrazione ostinata di trattamenti sanitari in eccesso
rispetto ai risultati ottenibili e non in grado, comunque, di
assicurare al paziente una più elevata qualità della
vita residua, in situazioni in cui la morte si presenta
imminente e inevitabile”.
Pur nell’ambito di una
discrezionalità tecnica, quindi, la definizione può
essere oggettiva, nel senso che spetterebbe ai medici stabilire se
la morte è imminente e inevitabile e se i trattamenti sono
efficaci o eccessivi.
Al contrario la definizione contenuta
nella legge: “in caso di pazienti in stato di fine vita o
in condizione di morte prevista come imminente” dimostra
che si vuole estendere il concetto (e quindi il controllo
giudiziale sull’operato del medico anche: a) alla condizione
di morte non prevista come imminente; b) alla condizione di
morte non prevista come inevitabile.
In sostanza il concetto di “fine
vita” è il grimaldello per estendere enormemente
l’ambito della previsione: tutti siamo in fine vita se non
ci curiamo o non ci nutriamo! Si tratta di
un’osservazione paradossale: ma occorre ricordare che Beppino
Englaro qualificava con gli stessi aggettivi le cure prestate alla
figlia; e che Karen Ann Quinlan (che era sopravvissuta per dieci
anni al distacco del respiratore artificiale ottenuto per via
giudiziale) morì per una polmonite che non venne curata
perché, nelle sue condizioni, ogni terapia veniva
considerata accanimento, terapia sproporzionata.
Se il punto di partenza –
esplicito o meno – è che i soggetti in stato
vegetativo hanno una condizione di vita non degna di essere
considerata umana, evidentemente le terapie possono essere ritenute
straordinarie o non proporzionate agli obbiettivi di
cura.
La previsione, in realtà, ha
quindi una radice profonda nel caso Englaro nel senso di
permettere, su richiesta dei tutori degli incapaci, che gli stessi
non vengano curati.
Paradossalmente qui il legislatore
sconfessa quella “prudenza” mostrata dalla Cassazione
nel Caso Englaro nel 2007 quando i supremi giudici dicevano che, in
assenza di una prova dell’irreversibilità della
perdita della coscienza e della prova della volontà presunta
del paziente di morire, “deve essere data incondizionata
prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di
salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere
del soggetto interessato”; prudenza già smentita dalla
Corte d’Appello di Milano quando sottolineava che, al
contrario, “[…] nulla impedisce di ritenere che il
tutore possa adire l’Autorità Giudiziaria quando, pur
non essendo in grado di ricostruire il pregresso quadro
personologico del rappresentato incapace che si trovi in Stato
Vegetativo Permanente, comunque ritenga, e riesca a
dimostrare che il (diverso) trattamento medico in concreto erogato
sia oggettivamente contrario alla dignità di
qualunque uomo e quindi anche di qualunque malato incapace, o che
sia aliunde non proporzionato, e come tale una non
consentita forma di accanimento terapeutico, e quindi un
trattamento in ogni caso contrario al best interest il
quale, è appena il caso di notarlo, avendo sempre come
referente l’utilità del malato, non può restare
confinato in senso meramente soggettivistico solo
nell’area di un’indagine riguardante la
volontà/personalità”.
Via libera, in definitiva, alle azioni
tese ad intimidire i medici e a obbligarli a non
spingersi troppo oltre nelle cure, così da estendere il
controllo su di loro ed ottenere la riduzione –
obbligatoria! – delle terapie rispetto ai pazienti
scomodi: anziani ricoverati nelle case di cura, malati mentali,
soggetti in stato vegetativo ecc.
3. Il principio del consenso informato.
L’articolo 1 lettera c)
“garantisce che nessun trattamento sanitario può
essere attivato a prescindere dall’espressione del consenso
informato nei termini di cui all’art. 2 della presente legge
…”
Il primo comma dell’art. 2
ribadisce il principio: “Salvo i casi previsti dalla
legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso
informato esplicito ed attuale del paziente prestato in modo libero
e consapevole”.
Il terzo comma descrive le informazioni
che il medico deve fornire al paziente che deve esprimere il
consenso (o il rifiuto).
Quali sono le conseguenze della
trasformazione di una regola deontologica come quella del consenso
informato in una regola giuridica?
Il Codice deontologico (art. 35)
già prescrive che “il medico non deve intraprendere
attività diagnostica e/o terapeutica senza
l’acquisizione del consenso esplicito e informato del
paziente”, prevede che, quando si rende necessario, il
consenso deve essere “espresso in forma scritta” e
conclude perché “in ogni caso, in presenza di
documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai
conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo
consentito alcun trattamento medico contro la volontà della
persona”.
La regolamentazione corretta – se
si vuole rispettare l’articolo 32 della Costituzione nella
parte in cui prevede che “nessuno può essere
obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per
disposizione di legge” – è prevedere come
efficace il rifiuto ad un trattamento sanitario (sempre che
sia adeguatamente informato e che il paziente sia pienamente capace
di intendere e di volere e in piena libertà) e non, al
contrario, richiedere un preventivo consenso come condizione
di legittimità dell’intervento medico! Il fondamento
dell’attività medica non è il consenso del
paziente, ma è la tutela della salute, bene
costituzionalmente tutelato (articolo 2 della Costituzione:
così la sentenza delle Sezioni Unite penali della Cassazione
del 18/12/2008 e così il Codice deontologico: “dovere
del medico è la tutela della vita, della salute fisica e
psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza nel
rispetto della libertà e della dignità della persona
umana …”, art. 3).
Quindi: – obbligo (deontologico) di
informazione, quando è possibile, del paziente;
– presunzione di legittimità dell’operato del
medico;
– salva la espressione esplicita ed attuale di un
rifiuto del consenso davanti al quale il medico deve astenersi
dall’intraprendere la terapia (salvo che sussistano altre
esigenze: ad esempio pericoli per la salute pubblica).
La norma sopra richiamata rovescia
– in modo giuridicamente efficace – i termini
della questione: il trattamento sanitario attivato senza il previo
consenso del paziente è illecito (regola generale),
salvo le eccezioni (trattamento sanitario obbligatorio,
vaccinazioni, pericolo per la vita della persona incapace in
pericolo per un evento acuto).
Il consenso viene, quindi,
cristallizzato come elemento costitutivo della liceità
dell’agire del sanitario: qui il legislatore, di fronte
all’evidente contrasto della giurisprudenza (ad esempio si
confronti la sentenza del 2007 sul Caso Englaro con quella delle
Sezioni Unite penali sopra ricordata) fa una scelta esplicita a
favore di questa tesi.
Si noti che:
– il consenso deve essere espresso in
precedenza (“previo consenso …”): non è
prevista alcuna ratifica a posteriori
dell’attività del medico;
– il consenso deve essere
esplicito (quindi non può essere
presunto);
– il consenso deve essere espresso in
forma scritta: l’art. 2 comma 3, infatti, afferma che
“l’alleanza terapeutica … si
esplicita in un documento di consenso, firmato dal
paziente, che diventa parte integrante della cartella
clinica”. La versione originale del progetto
Calabrò faceva propendere per un valore ad
probationem del documento (“L’alleanza terapeutica
… è rappresentata da un documento di consenso
…”). La modifica apposta dimostra, invece, che si
tratta di forma prevista ad substantiam, nel senso che un
consenso prestato oralmente non è valido e non può
essere, quindi, in alcun modo dimostrato a posteriori in
mancanza del documento firmato.
Anche la volontà del paziente di
non essere informato deve essere espresso per iscritto (articolo 2
comma 4), mentre niente è previsto per la revoca, anche
parziale, sempre possibile (art. 2 comma 5), anche se forse la
necessità della forma scritta si può desumere dai
principi generali.
L’art. 2 comma 6 prevede
esplicitamente la forma scritta per il consenso del tutore
dell’interdetto, mentre non lo prevede espressamente per il
curatore dell’inabilitato, per l’amministratore di
sostegno e per i genitori del minore: ma si tratta, verosimilmente,
di mancato coordinamento delle varie norme, per cui è
verosimile che verrà affermata in via generale la
necessità della forma scritta.
Gli scopi e gli effetti della
regolamentazione sono diversi:
– in relazione allo scopo fondamentale
della legge – introdurre l’eutanasia dei malati
incoscienti – il medico è, sostanzialmente, messo da
parte: se il consenso non è stato previamente prestato,
infatti, egli non ha nessun obbligo nei confronti del paziente, ma
addirittura un divieto di agire; non si può, quindi,
più ipotizzare una sua responsabilità omissiva per la
morte del paziente ex art. 40 capoverso codice penale perché
viene meno l’obbligo di attivarsi.
Nessun ostacolo è costituito dal
divieto (articolo 1 lettera e) “ai sensi degli articoli
575, 579, 580 del codice penale di ogni forma di eutanasia e ogni
forma di assistenza o aiuto al suicidio, considerando
l’attività medica, nonché di assistenza alle
persone, esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della
salute, nonché all’alleviamento della
sofferenza”: il richiamo, in realtà, si riferisce
solo all’uccisione procurata in modo attivo del
paziente; ma, in mancanza di consenso alle terapie, il medico
verrà messo da parte prima, senza possibilità
di operare (in un senso o nell’altro) sul paziente.
Perché invece si vuole introdurre
questo principio?
– Si interpreta il diritto alla salute
in senso strettamente individualistico, cancellando la salute come
“interesse della collettività”, quindi il dovere
alla salute;
– si introduce, quindi, il tema della
disponibilità della propria salute e della propria
vita;
– si vuole eliminare ogni autonomia
nell’operato del medico, che viene visto come esecutore delle
volontà altrui e non come operatore professionale che tutela
la salute individuale e di tutti; egli non ha più
l’obbligo di salvare la vita e la salute del proprio
paziente!
– nello stesso tempo i medici vogliono
essere al riparo da ogni rischio: il documento scritto (sia
di consenso, sia di rifiuto a ricevere le informazioni) li mette al
riparo da ogni contestazione;
– ma, ancora, la strada è quella
del controllo dei medici sulle decisioni dei pazienti:
soprattutto in presenza di soggetti deboli sarà, di fatto,
il medico ad influenzare le decisioni sulle cure, così da
indurre i pazienti a non prestare il consenso a determinate
terapie;
– non a caso nulla è previsto
quanto alla libertà effettiva del paziente a prestare il
consenso: si pensi, banalmente, ad un soggetto anziano e povero
cui il medico non prospetta una terapia che pure potrebbe
giovargli e allungargli la vita. Certo, l’art. 1 lettera b)
“impone l’obbligo al medico di informare il paziente
sui trattamenti sanitari più appropriati”,
così come l’art. 2, comma II, fa riferimento a
“corrette informazioni rese dal medico curante al paziente
in maniera comprensibile circa diagnosi, prognosi, scopo e natura
del trattamento sanitario proposto …”: ma nessuna
sanzione è prevista per il medico che non informa e
non propone terapie; lo stesso medico che non ha informato e
non ha proposto terapie, rispetto alla morte del soggetto che
avrebbe potuto essere evitata o ritardata non può essere
considerato responsabile perché la non attivazione della
terapia è giuridicamente conseguenza della mancata
prestazione del consenso scritto da parte del paziente.
La portata del principio è
amplissima:
– si prevede la possibilità di
revocare il consenso anche parzialmente (articolo 2 comma V):
niente si aggiunge, ma sembra che ciò legittimi (anzi:
imponga!) la cessazione delle terapie, anche se salvavita.
Non è prevista alcuna inefficacia di una revoca di
consenso che interrompa una terapia salvavita. È vero
che il testo parla di “attivazione di trattamento
sanitario”, quindi riferendosi ad un “inizio” di
terapia: ma, da una parte nelle patologie che necessitano di
terapie continue, è difficile distinguere quando un nuovo
trattamento “inizia”; dall’altra non ha senso
prevedere come possibile la revoca del consenso senza attribuire ad
essa un’efficacia: che, appunto, non può che essere
quella dell’interruzione del trattamento in corso.
Il caso è quello di Piergiorgio
Welby che revocò il consenso al trattamento del respiratore
artificiale che gli permetteva di rimanere in vita. Il G.I.P. che
prosciolse Mario Riccio sostenne che dal principio del consenso
informato discende anche l’obbligo di interrompere le terapie
già iniziate per le quali il paziente ha revocato il
consenso;
– è previsto che il consenso sia
prestato anche per terapie salvavita o d’urgenza: infatti
l’art. 2 comma 8 prevede, come ipotesi eccezionale, che
“Qualora il soggetto sia minore o legalmente incapace o
incapace di intendere e di volere e l’urgenza della
situazione non consenta di acquisire il consenso informato
così come indicato nei commi precedenti, il medico agisce in
scienza e coscienza, conformemente ai principi della deontologia
medica nonché della presente legge”, mentre
l’art. 2 comma 9 prevede che “il consenso informato
al trattamento sanitario non è richiesto quando la vita
della persona incapace di intendere e di volere sia in pericolo per
il verificarsi di un evento acuto”: è il caso
dell’incidente stradale nel quale il soggetto arriva al
Pronto Soccorso in stato di incoscienza. Rianimarlo? Solo con
questa eccezione la risposta è affermativa; ma se il
soggetto è cosciente e ciò nonostante deve essere
sottoposto a terapia intensiva, occorrerà il suo consenso
scritto; o se, al contrario, lo stato di incoscienza è
conseguenza di un evento non acuto (ad esempio per la
progressione prevista di una malattia inguaribile), il medico non
potrà attivare una terapia salvavita o d’urgenza se,
prima di cadere nello stato di incoscienza, il soggetto non
avrà prestato il consenso a quelle terapie.
- Le terapie erogate a
minori e incapaci.
La portata negativa del principio del
consenso informato si comprende appieno se si analizzano le norme
riguardanti le terapie da erogare ai minori e agli incapaci.
Occorre ricordare quanto detto all’inizio: è del tutto
scontato che sarà il genitore a decidere se il figlio
minorenne debba o meno sottoporsi ad un intervento dentistico,
magari dopo averlo sentito; ed è ovviamente positivo che
coloro che si prendono cura di pazienti incapaci, anziani, dementi
o comunque non in grado di decidere di sottoporsi o meno a terapie
instaurino un rapporto costante con i medici curanti (magari
talvolta anche dialettico); ma il legislatore vuole nascondere
dietro questi principi di buon senso finalità
diverse: ai parlamentari interessano soltanto le decisioni che
permetteranno di non curare o di lasciar morire il minore o
l’incapace.
Le norme sono le seguenti:
art. 2 comma VI: “In caso di
interdetto, il consenso informato è prestato dal tutore che
sottoscrive il documento. In caso di inabilitato o di minore
emancipato, il consenso informato è prestato congiuntamente
dal soggetto interessato e dal curatore. Qualora sia stato nominato
un amministratore di sostegno e il decreto di nomina preveda
l’assistenza o la rappresentanza in ordine alle situazioni di
carattere sanitario, il consenso informato è prestato anche
dall’amministratore di sostegno ovvero solo
dall’amministratore. La decisione di tali soggetti riguarda
anche quanto consentito dall’art. 3 ed è adottata
avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute
dell’incapace”
art. 2 comma VII: “Il consenso
informato al trattamento sanitario del minore è espresso o
rifiutato dagli esercenti la potestà parentale o la tutela
dopo avere attentamente ascoltato i desideri e le richieste del
minore. La decisione di tali soggetti riguarda quanto consentito
anche dall’art. 3 ed è adottata avendo come scopo
esclusivo la salvaguardia della salute psicofisica del
minore”
L’articolo 32 della Costituzione
non impone affatto che, nel caso di impossibilità del
paziente di prestare il consenso, qualcun altro debba prestarlo per
lui: se il soggetto è incapace, egli non è
obbligato ad una cura, ma semplicemente viene
curato.
Non si vuole dire che i genitori dei
figli minori e i tutori degli interdetti non debbano collaborare
con i medici per giungere alla migliore cura e terapia per gli
assistiti: ma essi non hanno la disponibilità del diritto
alla salute e alla vita degli stessi. L’art. 32 della
Costituzione, infatti, tutela la salute come fondamentale
diritto dell’individuo.
La regolamentazione corretta, quindi,
dovrebbe essere:
– alleanza terapeutica tra
genitore/tutore e medico mediante adeguata informazione (è
sufficiente una previsione deontologica);
– presunzione di legittimità
dell’operato del medico;
– obbligo per il medico di tutelare la
salute e la vita dell’incapace;
– possibilità per il tutore o i
genitori di contestare le cure prestate sulla base di motivazioni
adeguate;
– assoluta inefficacia del rifiuto di
cure salvavita o delle richieste di interrompere cure salvavita da
parte dei tutori o dei genitori, permanendo, quindi,
l’obbligo (penalmente sanzionato) per il medico di continuare
a curare l’incapace.
Invece la regolamentazione è
opposta: se il tutore o i genitori non prestano il consenso –
non firmano! – il medico non può curare
l’incapace!
Lo dice esplicitamente l’art. 8
comma II: “L’autorizzazione giudiziaria (da
parte del giudice tutelare) è
necessaria anche in caso di inadempimento o di
inerzia da parte dei soggetti legittimati ad esprimere il consenso
al trattamento sanitario”.
L’autorizzazione è
necessaria anche in presenza di urgenza: come si è
visto, infatti, l’art. 2 comma 8 prevede che ciò non
sia necessario solo quando “l’urgenza della situazione
non consenta di acquisire il consenso informato” (quindi, ad
esempio, se il genitore non è reperibile: se invece è
raggiungibile, occorrerà il suo consenso scritto
all’attivazione di qualsiasi trattamento sanitario sul
figlio).
L’autorizzazione del tutore o dei
genitori è necessaria anche in caso di pericolo di vita
dell’incapace: infatti l’art. 2 comma 9, come si
è visto, fa eccezione alla necessità del consenso
informato solo se il pericolo di vita dipenda dal
“verificarsi di un evento acuto”: ad esempio una
rianimazione tentata per strada di un soggetto coinvolto in un
incidente stradale; se il pericolo di vita non dipende da un evento
acuto l’eccezione non vale: il consenso è necessario
per legittimare l’intervento del medico.
In definitiva: a decidere sulle cure
sarà il genitore (il figlio esprimerà il suo
parere non vincolante) o il tutore (non è previsto
che l’interdetto sia sentito e ciò pare
irragionevole). Dubbi ancora più forti riguardano il potere
attribuito al curatore di un inabilitato (che, tendenzialmente,
è in grado di decidere sulle terapie che possono essergli
erogate), a quello del minore emancipato (ha più di 16 anni
ed è già sposato! Potrà decidere sulle cure da
ricevere …) o sull’amministratore di sostegno
(perché coloro cui è stato nominato un amministratore
di sostegno hanno una capacità mentale superiore agli
interdetti e agli inabilitati): questo allargamento sembra essere
un chiaro segno del favore con cui il legislatore vede le decisioni
sulle terapie da parte dei non pazienti.
Il medico che vorrà andare contro
al rifiuto di terapie espresso dal genitore o dal tutore
dovrà ricorrere al giudice tutelare.
Ma i genitori, il tutore e gli altri
soggetti sono liberi nelle loro decisioni? La legge dice che la
loro decisione “è adottata avendo come scopo esclusivo
la salvaguardia della salute psicofisica del minore (o
dell’incapace)”.
Si noti: non si parla di salvaguardia
della vita dell’assistito e non è affatto
scontato che la salute sia un minus rispetto alla vita (e
che quindi la previsione comprenda anche la difesa della vita. Il
concetto di “salute psicofisica” – lo sappiamo
bene, conoscendone la portata rispetto alla legge sull’aborto
– è un criterio assolutamente vago e assolutamente
soggettivo
Ma quello che è più grave
è che viene indicato lo scopo che il rappresentante deve
seguire, ma non viene prescritto né che il medico possa
(o addirittura debba) sottoporre al trattamento sanitario salvavita
l’incapace o il minore nonostante l’illegittima
mancata prestazione del consenso, né che sia
obbligatorio il ricorso al Giudice in questo caso. In
sostanza, se c’è accordo tra genitori o tutore da una
parte e medico dall’altra nel non erogare un trattamento
salvavita al minore o incapace, ciò potrà avvenire,
senza che si possa ipotizzare alcuna responsabilità
né per il rappresentante (che potrà invocare di
avere agito con lo scopo previsto dalla legge) né per il
medico (che non sarà responsabile di omicidio per
omissione in quanto non obbligato a prestare dette cure in mancanza
del consenso del legale rappresentante).
In realtà la vera soluzione
sarebbe stabilire che il rifiuto di cure salvavita o la revoca del
consenso a cure salvavita da parte del rappresentante legale siano
del tutto inefficaci, tamquam non essent, e ribadire che la
non instaurazione di dette cure o la sospensione delle stesse
è condotta punita ai sensi dell’art. 575 del codice
penale: ma questo il legislatore non stabilisce.
Non solo: quando prevede che “la
decisione di tali soggetti riguarda quanto consentito anche
dall’art. 3”, permette ai genitori e ai tutori di
rinunciare (per gli assistiti) “ad ogni o ad alcune forme
particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere
sproporzionato o sperimentale”. Il concetto di trattamento
sanitario sproporzionato, se correlato allo scopo della
salvaguardia della salute psicofisica dell’incapace
è assolutamente soggettivo.
In definitiva: i genitori e il tutore
non potranno chiedere (come ha fatto Beppino Englaro) di sospendere
la nutrizione e l’idratazione ai figli o agli interdetti:
potranno, però, rifiutare ogni trattamento sanitario e
perfino l’inserimento degli strumenti di nutrizione
artificiale, anche se si tratta di trattamenti che
oggettivamente (secondo la valutazione medica) potrebbero
salvare la vita agli assistiti.
La norma in questione ratifica un
principio niente affatto pacifico in giurisprudenza e che, invece,
in sostanza è stato affermato proprio dalla sentenza
dell’ottobre 2007 della Cassazione sul caso Englaro: che il
tutore (e il genitore del minore) ha il potere di decidere per
conto dell’interdetto (o del minore) anche su questioni
personalissime quali quelle del consenso al trattamento sanitario.
Tale principio era stato ripetutamente negato nelle fasi precedenti
a quella sentenza sia dal Tribunale di Lecco che dalla Corte
d’Appello di Milano: in effetti l’articolo 357 del
codice civile stabilisce che il tutore ha la “cura”
dell’interdetto, ma lo “rappresenta” solo
“in tutti gli atti civili”. Affermare il contrario
significa – di fatto – reintrodurre lo ius vitae ac
necis dei genitori sul minore (e del tutore
sull’interdetto): l’introduzione dell’obbligo di
sentire il minore non cambia la sostanza, perché la
decisione finale spetta sempre al genitore.
La previsione riguarda – temo
– il caso della rianimazione dei neonati estremamente
prematuri: il contrasto sorto tempo fa circa la possibilità
di proseguire le cure nei confronti dei neonati con ridotte
possibilità di sopravvivenza e alte probabilità di
disabilità viene risolto nel senso che i genitori possono
decidere “avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della
salute psicofisica del minore”; se elidiamo la motivazione
(come il meccanismo rende possibile) resta la possibilità di
decidere da parte dei genitori: esattamente quanto voleva quella
parte che aveva sostenuto la “Carta di Firenze” e che
era stata sconfessata dal parere del Consiglio Superiore di
Sanità.
La regolamentazione è palesemente
incostituzionale.
5) Le dichiarazioni anticipate di
trattamento.
Il
testamento biologico viene previsto in tutta la sua
ampiezza: il soggetto potrà rifiutare qualsiasi
trattamento sanitario sulla base della valutazione
soggettiva secondo cui le eventuali terapie possano essere
“di carattere sproporzionato o sperimentale” (art. 3
comma III).
Quali
limiti hanno nella proposta le dichiarazioni anticipate di
trattamento?
– “il soggetto non può
inserire indicazioni che integrino le fattispecie di cui agli artt.
575, 579, 580 del codice penale”: non può, quindi,
chiedere di essere ucciso direttamente dal medico, nemmeno con
mezzi medici (ad esempio: una dose massiccia di
sedativi).
Questa previsione vieta che il soggetto
possa disporre la cessazione di trattamenti salvavita (ad esempio:
distacco del respiratore artificiale)? Secondo qualcuno, sì;
in realtà è un’interpretazione dubbia,
visto che il principio è che il consenso possa essere
revocato: se così fosse, il legislatore dovrebbe affermarlo
esplicitamente (e per il momento non l’ha fatto);
– l’alimentazione e
l’idratazione artificiale non possono formare oggetto delle
dichiarazioni anticipate (art. 3 comma V): ma, si noti bene, le DAT
possono invece rifiutare l’inserimento di mezzi di
alimentazione artificiale che costituiscono un intervento
sanitario.
Le Dichiarazioni sono vincolanti oppure
no?
La risposta necessita di una
puntualizzazione dell’ottica nella quale ci si pone:
interessa sapere se il singolo medico sarà esentato da
pratiche per lui deontologicamente o moralmente inaccettabili,
oppure interessa sapere quale effetto hanno le DAT
sull’ordinamento generale?
Il fatto che le DAT non vincolino il
singolo medico (come è garantito dall’art. 7 comma
III: “il parere espresso dal collegio non è
vincolante per il medico curante, il quale non è tenuto a
porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di
carattere scientifico o deontologico”) non esaurisce
affatto la questione; il medico che si rifiuterà di
ottemperare alle DAT o alle indicazioni del fiduciario o alla
decisione del collegio medico (la procedura è prevista
dall’art. 7) sarà infatti sostituito da un altro
medico disposto alle pratiche in questione.
La domanda, quindi, resterà: il
nuovo medico agirà legittimamente per l’ordinamento
generale?
La categoria cui occorre fare
riferimento, quindi, è quella dell’inefficacia:
solo prevedendo l’inefficacia di determinate DAT (e la
conseguente punibilità del medico che le ponga in
attuazione, magari provocando la morte del paziente) si evita che
mediante il testamento biologico si introduca il principio della
disponibilità della vita.
In realtà l’inefficacia
è prevista solo per le “indicazioni orientate a
cagionare la morte del paziente” (art. 7 comma II) (e
cioè che “integrino le fattispecie di cui agli artt.
575, 579 e 580 del codice penale”, art. 3 comma IV) e per la
rinuncia all’alimentazione e idratazione (art. 3 comma V):
tutte le altre indicazioni sono valide ed
efficaci.
Si noti le diverse espressioni
utilizzate dall’art. 3: ai primi due commi si parla di
“orientamento in merito ai trattamenti sanitari”
, quindi con un termine che sembra indicare la non
vincolatività; ma l’art. 3 comma III si passa
improvvisamente ad una previsione palesemente vincolante:
“Nella dichiarazione anticipata di trattamento può
essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad
alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di
carattere sproporzionato o sperimentale”.
Si tratta dell’applicazione del
principio del consenso informato: la parola “rinuncia”
è precisa (non porre in atto quel determinato trattamento
sanitario) e il verbo “esplicitata” è lo stesso
previsto dall’art. 2 comma 3 (in cui si prevede il documento
scritto in cui viene esplicitato il consenso
informato).
Il medico, di fronte a questa
rinuncia, sarà costretto – magari
dall’azione del fiduciario (che opererà “sempre
e solo secondo le intenzioni legittimamente esplicitate dal
soggetto nella dichiarazione anticipata”) – a
desistere; e d’altro canto, sarà spinto a desistere
dal tentare di curare l’incapace perché avrà
garanzia di impunità: la mancata erogazione di
terapie salvavita rinunciate dal soggetto nelle DAT non sarà
a lui attribuibile.
Esiste una norma di non chiara
interpretazione: l’art. 4 comma VI che prevede che
“in condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in
pericolo di vita immediato, la dichiarazione anticipata di
trattamento non si applica”. In realtà la norma
non stabilisce automaticamente l’inefficacia di DAT
contenenti rinuncia a trattamenti salvavita, ma sembra esentare i
medici dal prenderle in considerazione in casi di urgenza (come per
il consenso dei genitori del minore) e in conseguente pericolo di
vita del paziente: non pare certo che possa applicarsi alle DAT in
cui si contempla l’ipotesi di una morte prevista come
conseguenza di una malattia inguaribile.
Il
testamento biologico è l’esatto opposto del consenso
informato: nonostante la legge preveda che esse debbano essere
stilate (ma anche semplicemente firmate in calce ad un foglio
dattiloscritto, come il modulo di Veronesi) dal soggetto
“in stato di piena capacità di intendere e di volere e
in situazione di compiuta informazione medico-clinica”, da
soggetto maggiorenne, “dopo una compiuta e puntuale
informazione medico clinica” e “in piena libertà
consapevolezza”, in realtà non è previsto
alcun controllo su queste condizioni: per fare un esempio
paradossale il soggetto potrebbe essere ingannato oppure
minacciato, costretto a firmare e ciò nonostante le
dichiarazioni sarebbero efficaci. Il fatto che a raccogliere le
dichiarazioni possa essere esclusivamente un medico di medicina
generale da una parte non dà alcuna garanzia della
libertà effettiva di chi stilerà le dichiarazioni,
dall’altra fa sorgere seri dubbi sulla effettiva
informazione clinica: forse un senso le dichiarazioni
potrebbero averlo nel caso di pazienti di malattia inguaribile e
progressiva che le dispongono dopo un colloquio con uno
specialista in grado di rappresentare loro il progresso della
patologia; che senso ha rendere le dichiarazioni al medico di
famiglia, quindi tendenzialmente in una situazione di non
malattia?
In
realtà quello che sembra proposto è uno
svuotamento dall’interno delle norme sull’omicidio
del consenziente: il rifiuto di terapie reso in vista di una
situazione futura e incerta, reso in una condizione di piena
salute, di fatto diventa una richiesta di morte nel caso il
soggetto si trovasse in una determinata situazione; richiesta, per
di più, che sarà soggetta ad interpretazione in
quanto inevitabilmente generica, non frutto di effettiva
informazione e soprattutto resa senza nessuna garanzia di
effettiva libertà morale.
In questo
modo, permettendo di individuare condizioni ritenute non degne
di essere vissute si aprirà la strada
all’eutanasia diretta o alla spinta sociale e morale nei
confronti dei soggetti deboli a firmare le dichiarazioni per
l’ipotesi in cui si trovino in quella condizione.
Il
fiduciario, in questa situazione, rischia di diventare
più che la voce dell’incapace, colui che deve
garantire che terapie non accettate non vengano erogate.
Giacomo
Rocchi