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Melazzini: anch’io mangio grazie a un sondino, e dico che questa sentenza è un omicidio

2008-11-14

Potrebbe essere l’ultimo atto, epilogo di una lunga
vicenda in cui nessuno esce vincitore, e solo una persona, di
certo, esce sconfitta: Eluana stessa

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venerdì 14 novembre 2008

«Ricorso inammissibile»: due parole tremende, per
dire che tornare indietro non si può. La sentenza che
condanna a morte Eluana Englaro non può essere cancellata, e
il suo tragico effetto non può essere bloccato. Questo ha
deciso ieri sera la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso
della procura di Milano.



Potrebbe essere l’ultimo atto, epilogo di una lunga vicenda
in cui nessuno esce vincitore, e solo una persona, di certo, esce
sconfitta: Eluana stessa. Di questa sconfitta è convinto
Mario Melazzini, presidente della Associazione Italiana Sclerosi
Laterale Amiotrofica (AISLA), e malato di Sla dal 2002. Una
sconfitta che suona particolarmente tragica per chi, come lui,
condivide con Eluana l’aspetto centrale di tutta questa
vicenda: il fatto di mangiare e bere grazie all’aiuto di un
sondino.



Dottor Melazzini, che cos’ha
provato sentendo questa ultima sentenza?




Enorme tristezza. Anche se da qualcuno potrà essere vissuta
come una vittoria, io dico che in queste situazioni non ci possono
essere né vinti né vincitori, ma solo sconfitti. E
una cosa esce sconfitta in particolare: la vita. Sentendo
dichiarazioni di vittoria fatte anche da persone non direttamente
coinvolte, mi vien da dire che forse dobbiamo interrogarci, come
società che si dice civile, su quale sia il valore che diamo
alla vita. È o no un valore assoluto? Alcuni dicono che
è stata fatta la volontà di Eluana: ma come si fa a
desumere la volontà, come accade nella sentenza, in base
solo ed esclusivamente a modelli di vita? A me come cittadino, come
persona e anche come malato questa cosa fa molto, molto male: la
vita vista come accettabile solo se adeguata a certi modelli.



Cosa si sentirebbe di dire alla
famiglia di Eluana?


Io mi sento vicino a quella povera famiglia, indipendentemente da
tutto. Non so cosa faranno ora, e se effettivamente metteranno in
pratica l’ultimo atto, che non sarà un accompagnamento
ma un vero e proprio omicidio. Questo mi sembra doveroso dirlo,
come uomo ma anche e soprattutto come medico: l’alimentazione
e l’idratazione non sono strumenti terapeutici, e come tali
non sono mai identificabili come atto di accanimento terapeutico.
Eluana non è una persona malata: Eluana è solo
disabile.



Ciò che ieri ha stupito
è l’aridità di una sentenza che giudica
tecnicamente inammissibile un ricorso: un semplice meccanismo
giuridico, che decide della vita di una
persona.




Questa è la cosa che io trovo veramente assurda, e
cioè che riguardo a un valore e un bene inalienabile e
indisponibile si possa decidere sul da farsi solo ed esclusivamente
in base a uno strumento giuridico. Questo sia detto con tutto il
rispetto per il lavoro della magistratura. Ma il fatto che i
magistrati giudichino inammissibile il ricorso solo dal punto di
vista procedurale, e non per i contenuti, forse dovrebbe far
concludere che non abbiano preso bene in visione quello che dice
l’articolo 2 della Costituzione. Si cita sempre e solo
l’articolo 32, e non si ricorda mai che all’articolo 2
si parla di «diritti inalienabili» da riconoscere e
garantire. Comunque, fa male e dà molto da pensare il fatto
che in un’aula fredda di tribunale vengano decisi alcuni
valori che sono indiscutibili.



Cosa accadrà ora? Molti
pensano che sia un semplice automatismo: si stacca una spina e
tutto finisce. Ma cosa accadrà realmente ad Eluana, se si
dovesse dare esecuzione alla sentenza?



L’idea che il tutto possa risolversi con una sorta di
automatismo è figlia di una concezione, gravissima, secondo
cui in realtà Eluana non è più una persona
viva. Basta staccare una spina, il sondino, e punto e a capo. Non
sarà così: morirà di fame e di sete,
cioè con una delle morti più atroci che ci possono
essere. Questo è doloroso ma deve essere detto, visto che
molti pensano e affermano che quella di Eluana non è vita.
Io posso affermare, come medico, che sarà una morte atroce,
e dovrà essere “controllata”, come accaduto nel caso di
Terry Schiavo. Alcuni fautori di questa sentenza e presunti uomini
di scienza sostengono che il danno subito da Eluana a livello
corticale, cioè della corteccia cerebrale, coinvolgerebbe
anche le strutture deputate al controllo della sete e di alcune
sensazioni, come il dolore. Ma se fosse così non ci sarebbe
ragione di trattare con analgesici maggiori le ultime ore della
vita, come accaduto con la povera Terry Schiavo. A Terry furono
date forti dosi di morfina. È come mettersi a posto la
coscienza, nel caso in cui quella teoria fosse erronea. Significa
che presumiamo che lei proverà grande dolore.



La sua malattia costringe anche lei,
come Eluana, alla nutrizione attraverso il sondino: che effetto le
fa sentire che questa condizione possa essere considerata in
contrasto con la dignità della
vita?



Mi sento profondamente offeso come malato, e non solo per me, ma
anche per i tanti malati che si trovano in condizioni simili a
quelle di Eluana, con alimentazione e idratazione artificiale.
Tutte queste persone hanno la loro vita; e la vita ha un valore
intorno al quale non possono essere prese decisioni, come se la
dignità fosse legata al concetto di qualità. Io ne
sono estremamente convinto: la dignità di ogni vita ha un
carattere intrinseco, ontologico. Mi è rimasta impressa
un’intervista fatta alle persone che accudiscono Eluana.
Dicevano: «oggi Eluana è molto bella».
Perché nessuno parla del fatto che ci sono persone che si
occupano di lei, che la vestono, la cambiano, le fanno fare
fisioterapia. Per una persona morta sarebbe tempo sprecato Ma
Eluana è viva. Purtroppo si pesa spesso che casi come
questo, che danno molto disagio, sia molto meglio risolverli. E la
cosa più grave è che tutto questo ci distrae da tutti
gli altri soggetti che sono a carico delle famiglie, le quali hanno
bisogno di strumenti e di sostegno economico per portare avanti
queste situazione. Sono costretti a lottare per essere liberi di
vivere. È un paradosso: è più tutelata la
decisione di interrompere una vita che non la scelta di chi vuole
continuare ad esercitare un diritto sacrosanto, come la vita
stessa. E così la scelta della vita diventa una battaglia
quotidiana.

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