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Risultati Legge 40 – anno 2005


Risultati Legge 40 – anno 2005

 

Alcuni dati significativi emergono dalla Relazione del Ministro della Salute del 2005, che riporta i risultati di una ricerca condotta su base volontaria nell’anno precedente con 129 centri che applicano tecniche fecondazione extracorporea, vale a dire con la fecondazione in vitro e il successivo trasferimento degli embrioni creati nel corpo della donna.

In sintesi: in conseguenza di oltre 21.000 trasferimenti embrionari di uno o più embrioni (si può calcolare che furono trasferiti circa 48.000 embrioni) ebbero origine 5.073 gravidanze che nel 21,7% dei casi monitorati sfociarono in un aborto spontaneo. I bambini di cui fu accertata la nascita furono 3.705, ma verosimilmente ammontarono a poco più di 4.500 (molte gravidanze, infatti non furono seguite fino all’esito finale).

Nel solo 2004, quindi, in quei centri morirono circa 43.500 embrioni che erano stati trasferiti in utero; altri embrioni – forse 10.000 – morirono già in provetta e quindi non furono nemmeno trasferiti. Si giunge a 53.500 embrioni, numero che, tenendo conto che i centri autorizzati sono attualmente 196, rende possibile ipotizzare che ogni anno in Italia muoiano oltre 80.000 embrioni creati con le tecniche di fecondazione in vitro.

La Relazione relativa al 2006 dovrebbe fornire dati numerici dettagliati, ma già è certo che la corretta applicazione della legge 40 (escludendo, quindi, le pratiche vietate dalla legge) ha comportato e comporterà la morte di diverse decine di migliaia di embrioni ogni anno.

Si tratta di numero comparabile con quello degli aborti legali eseguiti ai sensi della legge 194 del 1978 (circa 120.000 – 130.000 l’anno). Non è un accostamento arbitrario: un identico evento naturale – la morte di un embrione – che le due leggi regolano nello stesso modo, considerando questa morte legittima (e quindi non prevedendo sanzioni) se avvenuta in conseguenza di procedure da esse dettate. Del resto è la stessa legge 40 a richiamare esplicitamente la regolamentazione della legge 194.

Secondo alcuni, però, anche nella fecondazione naturale il numero di aborti spontanei è molto alto, soprattutto nella fase iniziale, anche se spesso la donna non si rende conto di quanto avvenuto.

In realtà si tratta di fenomeno dalle dimensioni incerte e del resto gli stessi operatori delle tecniche di fecondazione artificiale ammettono che il numero dei mancati attecchimenti degli embrioni e degli aborti spontanei è maggiore del dato naturale per la mancanza di quel “dialogo” tra madre e figlio che si instaura subito dopo la fecondazione e che prepara il corpo della donna ad accogliere l’embrione.

Ma è decisiva un’altra considerazione: se consideriamo ciascun embrione un soggetto (articolo 1 della legge 40) e non un numero, è inutile accostare i dati con quelli della fecondazione naturale, perché nessuno di quegli embrioni creati artificialmente sarebbe morto per un processo di fecondazione naturale, che avrebbe portato alla creazione di soggetti diversi (cui potremmo attribuire un nome diverso).

In sostanza, creare artificialmente embrioni comporta assumersi una responsabilità verso quegli embrioni, non verso altri. Così, per fare un esempio, un imprenditore edile non può invocare le statistiche sugli infortuni mortali per sfuggire alla propria responsabilità per un incidente avvenuto in un suo cantiere per la carenza di protezioni, perché ha una responsabilità diretta nei confronti dei suoi operai; nello stesso modo chi applica una tecnica di fecondazione assistita assume una responsabilità, non solo nei confronti della coppia di aspiranti genitori, ma anche nei confronti degli embrioni creati in ciascuna specifica operazione.

Si osserva, ancora, che, a differenza dell’aborto procurato, nel quale l’uccisione del concepito è volontaria, chi pratica la fecondazione artificiale non vuole la morte dell’embrione, anzi, fa di tutto per evitarla.

La realtà dimostra il contrario: senza dimenticare che, di per sé, le tecniche prevedono la selezione degli embrioni dopo la diagnosi preimpianto (pratica però vietata dalla legge 40), il rapporto tra bambini nati e embrioni creati ricavabile dai dati sopra esposti è bassissimo: 1 su 13. Dodici embrioni su tredici creati artificialmente sono destinati a morte certa. Il divario (in certi casi ancora maggiore, in altri di poco minore) è considerato pacifico dagli operatori e perfino dallo Stato che rimborsa con il Servizio Sanitario Nazionale fino a tre cicli: ritiene, cioè, non solo legale, ma anche meritevole di contributo pubblico la morte di nove embrioni.

Anche in questo caso, quindi, la morte degli embrioni è voluta: essa è prevista dall’operatore come praticamente certa, ma ciò nonostante egli agisce ugualmente, accettando che ciò che egli ha previsto avvenga, come in effetti avviene (in diritto penale questo atteggiamento è definito dolo eventuale).

Restando all’esempio prima utilizzato l’agire assomiglia a quello di un imprenditore edile spregiudicato che, per risparmiare, volontariamente non rispetta le norme antinfortunistiche e fa salire un alto numero di operai su ponteggi che sa reggere un peso inferiore: sa che il crollo del ponteggio è probabile, spera che ciò non avvenga, ma procede ugualmente, per finire in fretta il lavoro, accettando l’ipotesi che il crollo intervenga.

Non si tratta, quindi, di comportamento colposo, negligente, ma di condotta volontaria che produce consapevolmente dei risultati.

Se quindi l’accostamento tra i risultati dell’applicazione delle due leggi – quella sull’aborto e quella sulla procreazione assistita – è legittimo e ragionevole, è più facile comprendere che entrambe, anziché ostacolarla, assecondano la mentalità che è alla base di entrambe le pratiche occisive.

Entrambe fondano la propria legittimazione sulla tutela della salute: l’aborto, apparentemente, viene permesso solo in presenza di grave pericolo per la salute della donna mentre la fecondazione artificiale viene presentata come cura di una patologia, l’infertilità; in realtà le due leggi riconoscono un diritto assoluto della donna o della coppia di abortire o di tentare di giungere ad una gravidanza per via artificiale, prescindendo dall’esistenza effettiva di qualsiasi motivo.

Entrambe le pratiche e le leggi che le consentono negano, di fatto, ogni diritto dell’embrione, lasciando la sua sorte nelle mani degli adulti.

Entrambe le pratiche presuppongono o cercano, come si è visto, la morte di embrioni.

Entrambe le pratiche, inevitabilmente, sono influenzate da una mentalità eugenetica, poiché la morte dell’embrione è inflitta anche per eventuali suoi difetti, dopo una diagnosi prenatale nella gravidanza o una diagnosi genetica preimpianto nella procreazione medicalmente assistita; e se la legge 194, in sostanza, riconosce esplicitamente il diritto della donna all’aborto per motivi eugenetici, la legge 40 pone limiti assai deboli alla diagnosi preimpianto, di fatto riconosce il diritto della donna a rifiutare il trasferimento degli embrioni anche sulla considerazione dei loro problemi di salute e, soprattutto, mantiene integro il diritto della donna ad abortire in base alla legge 194: cosicché quest’ultima fa da stampella alla legge 40, così da giungere ad una regolamentazione analoga.

In definitiva non vi è spazio per un giudizio differenziato rispetto alla legge 194 e alla legge 40: se si salva la legge 40, si accetta la legge 194; ma se si rifiuta la legge sull’aborto, si deve respingere con lo stesso vigore la legge sulla procreazione medicalmente assistita.

Giacomo Rocchi
Comitato Verità e Vita