Seleziona Pagina

Neonati – La soluzione Olandese


Neonati – La soluzione Olandese

 

Ho conosciuto Eduard Verhagen il 9 dicembre a Firenze durante un congresso dal titolo: “Cure di fine vita in medicina neonatale”. Verhagen è il medico che in Olanda ha redatto il famoso “Protocollo di Groningen” sull’eutanasia dei bambini. Quello che mi ha colpito non è stato quello che ha detto: già era noto; piuttosto mi ha colpito l’applauso di quasi tutti i 30 convenuti che ha sottolineato le parole del medico olandese. Ora, si applaude per due motivi: perché si è d’accordo o per cortesia, ma (spero fortemente di sbagliarmi) mai un applauso è segno di disapprovazione. E questo è inquietante. In Italia si sta discutendo animatamente sul tema della rianimazione neonatale. Nel febbraio 2006, sempre a Firenze, uscì un protocollo sull’etica delle cure nei bambini estremamente prematuri – che non parla, ad onor del vero, di eutanasia -, che fu segnalato da Repubblica col titolo “Fermiamo le cure intensive per i neonati troppo prematuri”. E nel testo del quotidiano si leggeva: “E’ giusto far sopravvivere prematuri di 22-23 settimane destinati comunque a morire o a sopravvivere con gravissimi handicap? No dicono unanimi tutti gli organismi più rappresentativi del settore”. Tra gli Organismi viene annoverata la Società Italiana di Neonatologia (SIN), l’unica davvero in causa… che però non ha ancora portato al suo interno la discussione o l’approvazione del testo, come ha dichiarato il presidente della SIN il 7 dicembre 2006. In realtà si deve essere trattato di una svista giornalistica, perché, come si legge alla fine del protocollo, esso “sarà sottoposto all’approvazione delle Società Scientifiche sopra citate”; nel frattempo è andato al Comitato Nazionale di Bioetica per l’approvazione. Ci piacerebbe sapere cosa pensano le altre società scientifiche menzionate.

Il protocollo di Firenze spiega che fino ad una certa età dal concepimento il medico ha l’obbligo di rianimare il bambino solo se mostra “segni di sopravvivenza”… che però non conosceremo mai, se almeno non iniziamo una qualche rianimazione. Questa non è l’unica contraddizione: considerare “cure straordinarie” quelle a bambini che avranno dal 30% al 60% di possibilità di sopravvivere ci lascia inquieti.

Ci viene allora in mente il convegno neonatologico tenutosi a Bologna il 7 dicembre, ove invece che 30 partecipanti ce ne erano 600, e che nelle conclusioni ha ben spiegato che la missione del medico è quella di curare, e mai di sostituirsi al paziente nelle sue decisioni sull’accettabilità della vita. Un convegno in cui non si è riso di nessuna posizione, come è invece successo a Firenze, quando Verhagen ha menzionato l’”Osservatore Romano”, ma dove sono stati esposti tranquillamente i vari protocolli e proposte europee, analizzandoli serenamente. E nessuno ha trovato strano che un Cardinale esperto di bioetica vi tenesse una lezione.

In questi mesi si sono succeduti vari protocolli in Italia sulle cure ai bambini piccolissimi. Anche a Bologna sono state avanzate delle proposte. Ma è possibile trovare delle basi comuni per un dialogo e un confronto nell’interesse primario dei piccoli pazienti? Alcuni segnali ci fanno intendere che una strada positiva si sta aprendo e che sta emergendo un discrimine, una domanda che deve sempre essere alla base delle nostre discussioni: che idea abbiamo della disabilità? Per tutti l’handicap è una fatica, talvolta un dolore con un imperativo: vincerlo e curarlo; il rischio è che qualcuno, supponendo di interpretare il pensiero dei disabili che talora non sanno esprimersi, pensi che questo dolore e fatica rendano la vita “non umana”, rendano la morte preferibile e che anche il solo rischio di far sopravvivere un disabile grave meriti di non rianimare (o abortire) chi ha una seria possibilità di divenirlo. Tante famiglie di disabili ci spiegano, ma senza megafoni purtroppo, che questo non è vero: che l’amore e la realtà sono più forti dei pregiudizi; che fa più paura la realtà immaginata che la realtà reale. Già, di fronte a chi ci mostra che anche un disabile è una risorsa per il mondo, noi ci rifugiamo nella nostra fobia del “diverso”, dello “sconosciuto”, e come per tutte le fobie, desideriamo che l’oggetto di essa sparisca. Questo ormai non è più accettabile: se il pregiudizio e l’abbandono sono i nemici, la cura, la ricerca e la solidarietà, invece, sono i nostri alleati per rispettare chiunque, davvero chiunque. Insomma: non esistono “zone grigie” in cui la vita è una “scelta subordinata a…”, ma possono esistere sguardi grigi di chi pensa che la vita valga “solo se…”. Non sarà, allora, troppo facile scandalizzarci solo dell’eutanasia attiva fatta in Olanda su soggetti con prognosi certa, mentre è in agguato quella passiva, su soggetti con prognosi incerta?