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Lettera al direttore di Avvenire su intervista del 14/06/2007


Lettera al direttore di Avvenire su intervista del 14/06/2007

 

Gentile Direttore,

la lettura di una parte dell’intervista a don Roberto Colombo apparsa su Avvenire del 14/6/2007 suscita serie perplessità che ritengo doveroso esprimerLe.

Alla domanda concernente la diagnosi e la prevenzione delle malattie genetiche, don Colombo dapprima richiama il divieto della legge 40 di indagini genetiche volte alla selezione degli embrioni da trasferire e alla eliminazione di quelli che presentano difetti e aggiunge: “Una possibilità resta, però, aperta: analizzare l’ovocita prima della fecondazione in vitro. Questo è possibile prelevando un componente genetico che non è destinato alla fecondazione, chiamato ‘primo globulo polare’. Dalla sua analisi molecolare si possono trarre utili informazioni in un numero di casi di malattie ereditarie: se positivo, il test potrà suggerire di non fecondare quell’ovocita”. L’intervistato richiama poi studi in ordine alla diagnosi del primo globulo polare nel caso della emofilia A e della mucopolisaccaridosi di tipo I.

Non è difficile intravedere la contrarietà di questa soluzione al dettato e allo spirito della legge 40 del 2004 sotto due profili.

In primo luogo l’analisi in questione riguarda chiaramente coppie fertili, sia pure con problematiche di carattere genetico in uno o l’altro componente la coppia che rischiano di essere trasmesse all’embrione: e, come è noto, l’accesso alle tecniche di fecondazione artificiale è circoscritto dalla legge ai casi di sterilità o infertilità della coppia (articolo 4 comma 1).

Don Colombo ritiene che questa analisi debba essere effettuata solo sulle coppie che non riescono a concepire naturalmente oppure la ritiene uno strumento generale di prevenzione delle malattie genetiche?

La legge 40, poi, non vieta solo le “indagini genetiche volte alla selezione degli embrioni”, ma vieta – e punisce con una sanzione penale severa – anche “ogni forma di selezione a scopo eugenetico … dei gameti ovvero interventi che, attraverso tecniche di selezione … siano dirette a predeterminare le caratteristiche genetiche dell’embrione” (articolo 13 comma 3 lettera B della legge).

Il concetto di “selezione” presuppone un determinato gruppo di gameti – quali sono gli ovociti non fecondati – e una scelta all’interno di questo gruppo di alcuni di loro: ed è esattamente l’operazione che propone don Colombo.

Quella proposta è una selezione “a scopo eugenetico”?

Sicuramente si tratta di una selezione effettuata su base genetica e non sulla base di altre caratteristiche dell’ovocita (selezioni che risultano nella pratica, ad esempio scegliendo gli ovociti più maturi, o di maggiori dimensioni o che, all’osservazione microscopica, appaiono più adatti alla fecondazione).

È possibile distinguere, tra le selezioni su base genetica quelle che sono effettuate a scopo eugenetico e quelle che invece non lo sono? A prima vista può sembrare di sì: si può credere, cioè, che la selezione a scopo eugenetico sia quella svolta dallo scienziato esaltato che persegue il mito dell’uomo perfetto sulla base di una propria ideologia delirante.

Ma, in realtà, questa distinzione è molto meno netta di quanto possa apparire: lo scopo della selezione dei gameti è sempre quella di ottenere un embrione – e poi un bambino – privo di difetti genetici, non malato … in definitiva perfetto.

La questione della prevenzione di malattie anche gravi è – o rischia di essere – in realtà uno schermo: chi decide quali sono le malattie gravi che giustificano la selezione? Perché solo la talassemia e non altri difetti apparentemente meno gravi? Perché, ad esempio – ipotizzando astrattamente la fattibilità – non selezionare gli ovociti per evitare la creazione di un bambino troppo basso, o con tendenza all’obesità?

La logica è sempre quella della produzione dell’uomo: se si accetta questa logica – l’operatore della fecondazione artificiale extracorporea, la coppia che vi si sottopone – non si può che perseguire l’obbiettivo del figlio corrispondente al desiderio, al modello che (più o meno coscientemente) gli adulti hanno.

In questo modello i malati di talassemia o di altre malattie genetiche non sono contemplati, non sono compresi, non sono accettati: non devono nascere. E allora la diagnosi del primo globulo polare (che fornisce informazioni parziali, non sicure al 100% e soprattutto limitate ai possibili problemi genetici di cui è portatrice la aspirante madre), rischia di non essere altro che la prima tappa di un iter che contempla la diagnosi del secondo globulo polare (effettuata a fecondazione avvenuta), la diagnosi genetica preimpianto e, soprattutto, la diagnosi prenatale in gravidanza, con la eliminazione sistematica di tutti i bambini affetti da malattia (o anche solo sospettati di esserlo).

L’operatore della fecondazione che si limita ad effettuare (ovviamente con il consenso della coppia) la diagnosi del primo globulo polare può ritenersi tranquillo rispetto a questa logica?

Torniamo all’articolo della legge e cerchiamo allora di capire il senso di questa regolamentazione, che a prima vista (nell’interpretazione proposta in questo intervento), appare davvero severa: la legge non vuole che, mediante la selezione dei gameti, siano “predeterminate le caratteristiche genetiche dell’embrione”: ma questa predeterminazione non si ha solo quando si selezionano i gameti per ottenere un embrione maschio o femmina, ma tutte le volte in cui si vuole escludere che l’embrione abbia determinate caratteristiche genetiche, tra cui anche i difetti genetici.

Può sembrare paradossale (e certamente lo è): il legislatore della fecondazione artificiale pretende che, al momento della fecondazione, la natura faccia liberamente il suo corso.

In realtà, tornando alla prima obiezione alle dichiarazioni di Don Colombo, questa pretesa del legislatore nasce dal fatto che la procreazione medicalmente assistita è ammessa solo come rimedio all’infertilità di coppia, solo per “rimuovere le cause impeditive della procreazione” (articolo 4) e non per altri scopi, nemmeno quello della prevenzione delle malattie genetiche.

Concludendo: le tecniche di fecondazione artificiale extracorporea seguono, fin dalla loro creazione, una logica antiumana, che vuole produrre l’uomo, selezionarlo, migliorarlo, utilizzarlo; che lo rendono un oggetto che deve essere di ottima qualità e che, se non lo è, può tranquillamente essere eliminato. Il disinteresse per la vita degli embrioni da parte degli operatori è palese e giunge ovviamente a negare la natura umana agli embrioni ai primi stadi; d’altro canto – come è universalmente noto – le tecniche in sé comportano la morte (in provetta o in utero) di almeno nove embrioni su dieci, a prescindere dalla loro integrità genetica o meno.

Io non so come un operatore sanitario cattolico possa ritenere compatibile con il proprio credo l’esercitare queste pratiche, né ho titolo alcuno per esprimere un giudizio: quello che però, da giurista, posso affermare è che la legge 40 – pur non impedendo la produzione e la morte di numerosi embrioni – ha voluto intervenire su questa materia (anche se ritengo con scarsa efficacia) dando alcune direttive e ponendo alcuni paletti: tra questi vi è il divieto di ricorso alle tecniche per finalità diverse da quella del superamento dell’infertilità (articolo 13 comma 3 lettera a).

Occorre – almeno – cogliere queste indicazioni per evitare di essere trascinati nelle logiche che il legislatore rifiuta.

Giacomo Rocchi
Magistrato