
Una tragedia che richiama l’Antigone di Sofocle.
Francesco Gentile (Università di Padova)
Nella
tarda sera del 9 febbraio 2009, mentre il paese si stava mettendo a
cena, silenziosamente s’è consumata la Tragedia
Englaro. Perché d’una vera tragedia si è
trattato; non si può mettere la testa sotto la sabbia, come
degli struzzi, magari approfittando del “grande
fratello”! Una tragedia che richiama l’Antigone di
Sofocle.
“Pollà tà deinà
koudèn anthrópou deinóteron
pélei”, recita il Coro dei vecchi tebani.
“Molte le cose tremende, ma di tutte più tremenda
è l’uomo”. Tremendo, prodigioso, misterioso,
l’uomo varca il mare in burrasca, consuma la terra aprendola
con l’aratro, cattura gli uccelli dell’aria nelle spire
delle reti e i pesci dell’acqua, doma con le sue arti le
bestie selvatiche, piega al giogo il collo crinito del cavallo e
quello dell’infaticabile toro montano. La parola si è
data e l’aereo pensiero e le consuetudini civili. In tutto
ingegnoso, armato d’ogni risorsa fa fronte al destino,
rimedia a mali incurabili, con tecnica sopraffina ora al bene ora
al male si volge. Solo all’Ade non scampa
(332-363)!
Ma di chi
è la tragedia? Non di Eluana come non di Antigone, sebbene
attorno alle due giovani donne la vicenda si sia sviluppata e da
esse prenda il nome, ma del Padre Englaro come di Creonte, il padre
padrone di Tebe, e per loro tramite dell’uomo, di ogni uomo,
del XXI° Secolo dopo Cristo come del V° Secolo avanti
Cristo.
Se il
dramma della studentessa ventenne si è consumato
nell’incidente della notte del 18 gennaio 1992, la tragedia
ha cominciato a delinearsi quando la prodigiosa tecnica medica
della rianimazione
ha
restituito al Padre Englaro un essere che non era integralmente
vivo e che non era definitivamente morto. “Me misera –
si lamenta Antigone ridotta nella cella sepolcrale della sua
strana tomba – né tra i vivi né tra i morti, agli uni
e agli altri straniera” (847-852).
Da tempo
la tecnica, prodotto straordinario dell’ingegno
dell’uomo, che ne ha dilatato smisuratamente il dominio sul
mondo, si trova desolatamente impotente a definire in modo
accettabile lo stato dell’essere: dalla genuinità di
una cosa alla vitalità di una persona. E per questo, non
trovando soluzione scientifica, si rivolge al diritto, confidando
in una soluzione giuridica.
Ai
problemi insoluti della tecnica medica, in particolare, il diritto
è venuto incontro con la definizione per legge (l. 578/1993,
art. 1,1) della morte come “cessazione irreversibile di tutte
le funzioni dell’encefalo”. Un legge, va detto,
strettamente funzionale all’espianto di organi per i
trapianti ma sulla quale molte perplessità si stanno
addensando, anche alla luce di nuove esperienze scientifiche che,
se non contribuiscono a meglio definire, in positivo, lo stato di
morte, fanno ritenere, in negativo, del tutto insufficiente il
criterio della morte cerebrale; ne tratta con acutezza e
serenità un giurista e filosofo assolutamente laico come
Paolo Becchi, nel saggio di recente apparso
su
Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica
giuridica. E con la definizione per legge (art.32 Cost.
ma anche l. 833/1978, art. 33) del “consenso informato”
quale presupposto di liceità del trattamento
medico-chirurgico. Disposizioni normative che certamente si
radicano sulla inviolabilità della libertà personale
del paziente ma che, va detto, sono funzionali alla configurazione
della responsabilità del medico prima e più della
stessa competenza professionale; se, infatti, escludono che il
medico per la sua scienza abbia il “diritto di curare”,
stabiliscono che esso non possa essere chiamato a rispondere di
nulla quando abbia messo il paziente in grado di compiere la sua
scelta e ne abbia raccolto il libero consenso.
Malauguratamente al Padre Englaro, sconvolto dal
dramma abbattutosi sulla sua casa e affranto dal dolore che ha
investito i suoi più prossimi congiunti, non sono risultate
d’aiuto né l’una né l’altra
normativa. Non quella sulla morte cerebrale, perché il caso
Eluana non vi rientrava: è straziante pensare che il suo
medico di fiducia, il neurologo Defanti, sino all’ultimo ne
abbia definito lo stato fisico come ottimo, “al di là
della lesione cerebrale, Eluana è una donna sana. Mai avuto
malattie, mai avuto bisogno neppure di un antibiotico”. Non
quella sul consenso informato, perché nel caso del ricovero
di infortunati in stato d’incoscienza il medico deve
provvedere al pronto soccorso indipendentemente dal consenso. Una
scorciatoia giuridica si è profilata con la nomina del Padre
Englaro a tutore della figlia interdetta, quella del ricorso alla
“volontaria giurisdizione”. E qui un precisazione
tecnica è d’obbligo, per evitare tutti gli equivoci
che il bailamme mediatico ha ingenerato.
Quella
volontaria è un tipo di giurisdizione diretta non a
risolvere una lite ma a gestire un negozio o un
“affare”, per la cui conclusione è necessaria la
partecipazione di un terzo estraneo e imparziale, non consentendo
la legge di procedervi privatamente. Nel caso il magistrato,
appunto il terzo estraneo e imparziale, non decide alcunché
semplicemente collabora con l’interessato allo scopo
dell’attuazione del suo affare sulla base del suo volere. Per
questo il provvedimento finale di tale volontaria giurisdizione,
che non è una sentenza ma un decreto, non regola con
stabilità un rapporto controverso né sancisce diritti
soggettivi ma, sulla base di una valutazione di opportunità
sempre rivedibile e quindi revocabile, autorizza rebus sic
stantibus la conclusione dell’affare voluto dal
ricorrente.
Come
Creonte ritenendo che “la miglior cosa sia arrivare alla fine
della vita rispettando le leggi stabilite” (1112-13), il
Padre Englaro si è affidato a questa scorciatoia giuridica
rimanendo inghiottito nella tragedia. Perché, per questa
via, alla morte di Eluana, quella reale non quella convenzionale
che le tecniche medica e giuridica non hanno potuto sancire, si
è giunti per la volontà del padre e solo per essa,
non essendo riferibile la decisione né a un giudice
né a una legge. Bisogna essere seri: un’autorizzazione
a fare non stabilisce né un diritto né un obbligo ma
concede una licenza. E qui, tragedia nella tragedia, si è
consumato per l’intreccio perverso delle procedure giuridiche
l’assurdo della morte di Eluana per sua volontà,
poiché al Padre Englaro è stata concessa licenza di
procedere “all’interruzione del trattamento di sostegno
vitale”, eufemismo per dire di procedere alla determinazione
della morte della figlia, sulla base della sua personale
volontà.
La lettura
della sentenza della Cassazione (n. 21748/2007), che ha stabilito i
termini di attuazione di quella licenza, è tremenda in
proposito. Per un verso si afferma tassativamente che “al
giudice non può essere richiesto di ordinare il distacco del
sondino nasogastrico: una pretesa di tal fatta – si precisa
– non è configurabile di fronte ad un trattamento
sanitario, come quello di specie che, in sé, non costituisce
oggettivamente una forma di accanimento terapeutico e che
rappresenta, piuttosto, un presidio proporzionato rivolto al
mantenimento del soffio vitale” (8). Per altro verso si dice
che il tutore “nella ricerca del best interest deve
decidere non al posto dell’incapace ne
per l’incapace ma con l’incapace”
(7.3).
Misera
più misera di Antigone, “nella parte estrema della
tomba, appesasi per il collo” (1220-21), nella quiete Eluana
sarebbe andata alla morte con la presunzione della sua personale
volontà.
Misero
più misero del padre padrone di Tebe, il Padre Englaro,
lasciato solo dalla tecnica medica come dalla giuridica, non
parliamo di quella politica che ha solo strumentalizzato per altri
fini l’intera vicenda, con la sua volontà ha condotto
alla morte la propria figlia, magari per amore! Come non sentire
nella sua disperata richiesta d’essere lasciato solo
l’eco delle parole di Creonte: “Mai cadrà su
altri mortali la colpa. È mia. Io, essere infelice, ti
uccisi, ahimè; è verità. Servi, presto,
portatemi via, portate lontano questo nulla”
(1319-1325).
Spentesi
le luci sulla vicenda e attutitesi le voci polemiche,
all’uomo comune, sbigottito, spunta sulle labbra la domanda
che tra loro i discepoli del rabbi di Nazareth si rivolgevano di
fronte alla dura rappresentazione della vita: “Chi dunque
potrà salvarsi?”. Non si può prescindere dal
mistero della risposta: “Agli uomini è impossibile, ma
non a Dio. Perché tutto è possibile a Dio” (Mt
19, 23-26; Mc 10, 23-27; Lc 18, 24-27).
Non credo
che si possa accampare la mancanza di fede per non riconoscere la
precarietà delle soluzioni che si affidano alla volatile
volontà dell’uomo, singolo o collettivo. Non credo che
sia necessario un atto di fede per riconoscere che solo affidandosi
ad un Amore superiore è possibile sopperire ai limiti del
nostro povero amare. Non credo che ci si possa sottrarre alla
propria coscienza che è, per usare le parole di uno che non
ha avuto la “fortuna” d’incrociare Gesù
Cristo, “quanto di più divino Dio a dato
all’uomo” (Cicerone, De officis 3, 10,
44).
Francesco
Gentile
(Università di
Padova)