
Riposi in Pace! Noi altri, no!
di padre Gonzalo Miranda, L.C. – *Docente presso la
Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum
di Roma
ROMA,
giovedì, 12 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Eluana non è
più con noi. Riposi in pace. Noi altri, no: non possiamo
riposare in pace, come se niente fosse successo.
Suo padre,
Beppino, chiede di essere lasciato solo, in silenzio. E non ha
l’obbligo di leggere quello che scriviamo. Ma noi non possiamo
tacere, come se fosse calato il sipario alla fine di un lungo
spettacolo drammatico: chi piange, chi applaude, chi commenta… E
tutti a casa, per tornare alla vita reale. No, quello che abbiamo
vissuto tutti, è vita reale. Anzi, morte reale. Più
precisamente: omicidio reale.
I
significati e le conseguenze di questi fatti e dei fiumi di parole,
argomentazioni, slogan e imprecazioni che hanno invaso tutto il
paese intorno a questa vicenda, sono enormi. E vanno ancora al di
là della vita preziosa di Eluana Englaro. Toccano più o
meno direttamente altre 2500 persone che si trovano in stato simile
al suo. Si ripercuotono poi inevitabilmente su tante altre persone
che soffrono o possono soffrire situazioni mediche in base alle
quali qualcuno tenderà di nuovo a dire: “È già
morto… E’ solo un vegetale… È una vita indegna di essere
vissuta…”. Ed eventualmente spingere per una fine simile a quella
di Eluana.
Non
possiamo riposare in pace. Abbiamo l’obbligo morale di
“tormentarci”, di riflettere, di imparare e di trarre le dovute
conclusioni, etiche e legali.
In questo
sforzo di riflessione, possiamo per esempio chiederci: chi era
Eluana? Non: chi era quella bella ragazza bruna, sempre sorridente,
che abbiamo visto mille volte e che abbiamo imparato ad
amare.
Chi era la
Eluana sul cui destino abbiamo tutti discusso appassionatamente: a
casa, nel bar, nei tribunali, nelle radio e le tv, e alla fine,
troppo tardi, anche al Senato. Chi era, come si trovava veramente,
qual era la sua immagine reale?
Possiamo
forse ricordarla? No, non ci hanno fatto vedere nemmeno un solo
scatto. Sembrerebbe la cosa più logica: il padre voleva
custodire giustamente la sua intimità. Possiamo, però,
ricordare l’immagine di Terry Schiavo, la donna americana fatta
morire nel 2005 perché si trovava, anche lei, in stato
vegetativo persistente? Certo che ci ricordiamo!
Quelle
immagini, non potremo mai dimenticarle. Qual è la differenza?
Molto semplice: in quel caso doloroso, qualcuno voleva che
vedessimo. Nel caso doloroso di Eluana si voleva che non
vedessimo.
I genitori
di Terry (non il marito, Michael, che la portò fino alla
morte) volevano che noi la vedessimo, affinché potessimo
capire. Volevano che la gente, i giudici e tutti, potessero
comprendere che Terry non era un vegetale; che era una persona viva
che apriva e chiudeva gli occhi, che respirava perfettamente senza
alcuna macchina, che reagiva sorridendo – solo meccanicamente? -
alle carezze della mamma.
Il signor
Englaro faceva bene a proteggere la privacy della figlia. Ma
intanto, per 10 anni è andato in tutte le televisioni e radio
di questo paese a parlare di Eluana, mostrando le sue foto – solo
quelle anteriori all’incidente – e facendo diventare sua figlia un
“caso pubblico”. Un caso doloroso che ha toccato, anzi ferito,
tutti noi. Ma noi non l’abbiamo vista. Evidentemente si voleva che
non vedessimo, affinché non potessimo
capire.
E allora,
nel nostro doveroso sforzo di riflessione, dobbiamo tentare di
vedere per capire. Conosciamo sempre più casi di persone che
escono dallo stato vegetativo, anche dopo parecchi anni. Sappiamo
di Salvatore Crisafulli, uscito dopo due anni. Ma chi ha seguito il
tema da tempo, conosce anche tanti altri: Patti White Bull, dopo 16
anni; il polacco Jan Grzebski, dopo 19 anni; Terry Wallis, dopo 19;
Massimiliano N., dopo 10…
In tutti
questi casi, come in molti altri, gli interessati raccontano di
aver sentito, capito, patito e addirittura di aver tentato di
comunicare. Motivati da queste esperienze innegabili, l’equipe
medica inglese guidata da A.M. Owen, ha voluto verificare
l’eventuale attività cerebrale in una giovane in stato
vegetativo persistente.
L’articolo
scientifico pubblicato sulla rivista Science nel 2006 ha lasciato
attoniti i più increduli: la Risonanza Magnetica Funzionale ha
mostrato l’attivazione delle varie zone cerebrali, in
corrispondenza con gli inviti da parte dei ricercatori ad
immaginare di salire delle scale piuttosto che di giocare una
partita di tennis, in maniera esattamente uguale a quanto
evidenziato nel cervello dei “soggetti di controllo”
sani.
Infatti,
gli esperti si convincono sempre più – come riferisce un testo
pubblicato due mesi fa dal President’s Council of Bioethics
degli Stati Uniti – del fatto che in queste situazioni “la
valutazione clinica si limita a misurare la capacità di
rispondere all’ambiente” e che “ci sono buone ragioni per essere
molto cauti prima di assumere che la vita cosciente si sia
estinta”.
Certo,
alcuni continueranno a dire, nonostante queste conferme sempre
più numerose e schiaccianti, che comunque si tratta di vite
“non degne di essere vissute”, al punto che provocare la loro morte
sarebbe una “liberazione”.
In fondo si
tratta di una profonda corruzione ideologica in relazione al valore
della persona, di ogni persona umana. Corruzione che si esprime in
quella che Giovanni Paolo II chiamò “Cultura della
morte”.
Con questa
espressione non denunciava la nostra società come se fosse
tutta assetata di sangue e di morte. La “cultura della morte”
consiste in una mentalità – plasmata in una serie di
realtà sociali – che, avendo perso di vista il valore
intangibile di ogni vita umana, la considera come un bene relativo
e disponibile per la libertà dell’individuo, così che
considera la morte come la soluzione migliore davanti a certi
problemi e l’opzione per essa un diritto che la legge deve
riconoscere all’individuo.
Nel caso di
una gravidanza
non desiderata, pericolosa o problematica, la soluzione è la
morte del nascituro; se si tratta di un malato in stato grave che
non trova senso per la sua vita, la soluzione è anticipare
“dolcemente” la sua morte; se si desidera portare avanti la ricerca
per eventuali cure future con le cellule staminali pluripotenti, la
soluzione passa attraverso la distruzione di embrioni umani. La
morte, non come un bene desiderabile, ma sì come soluzione per
la quale si può, e addirittura conviene,
optare.
In
verità dovremmo parlare, non di “cultura”, ma di
“anti-cultura”. Cultura dice coltivazione dello spirito umano nella
società. Qui stiamo tornando invece allo stato selvaggio, non
coltivato. Stiamo tornando indietro. Le conseguenze, se andiamo in
quella direzione, saranno abissali.
Non
possiamo, dunque, tacere e chiudere gli occhi della mente e del
cuore. Eluana riposi in pace. Noi no.
Peccato non
venga ricordato l’abominio peggiore: la fecondazione
extracorporea!!!! (ndr)