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Quando Eluana è morta, era sola

2009-02-11

L’editoriale di Massimo Micaletti

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 Eluana è morta.
Ora, almeno, sono tutti d’accordo che lo sia. Nelle sue
ultime ore, si consumava lo scontro tra chi difendeva la vita e chi
venerava la propria personalissima e dubbia idea di Costituzione,
ponendola al di sopra della vita di un essere umano indifeso;
l’inattesa resistenza del Governo e di ampia parte
dell’opinione pubblica a quel che stava succedendo aveva
lasciato germogliare un incredulo sussurrato ottimismo. Ma poteva
essere ottimista solo chi non avesse conoscenza del deserto
ideologico in cui la povera Eluana era stata trascinata.

     In effetti, già poche ore dopo
l’avvio del “Protocollo di disidratazione” che
avrebbe portato Eluana a morire di fame e di sete
l’équipe di disidratatori che la seguiva aveva
dichiarato che le procedure sarebbero state accelerate. Il senso
era chiaro: mettere il Paese, e la politica dinanzi al fatto
compiuto. E ci sono riusciti.

     Adesso il padre di Eluana chiede silenzio,
vuol restare solo. Strano, in questa vicenda, il rapporto di
Beppino Englaro con i media e l’opinione pubblica: quando
otteneva un provvedimento favorevole alle proprie tesi, che apriva
ad Eluana le porte del camposanto, aveva bisogno di star solo, di
chiudersi nel silenzio; non appena interveniva qualche intoppo che
poteva far dubitare che sua figlia sarebbe stata effettivamente
uccisa, allora lo si ritrovava sui giornali, anche internazionali,
in tv, alla radio, sul web che dichiarava, meditava, esitava.
C’era lui, sempre lui, non sua figlia.

     Ma quando Eluana è morta, era
sola.

     Non c’era nessuno in quella stanza: il
padre Beppino Englaro era a Lecco, come pure la madre. Non
c’era un infermiere, un medico, nessuno di quelli che
avrebbero dovuto “accompagnarla al riposo con presenza
costante ed attenta”, com’è stato scritto da
qualcuno.

     Ad Udine c’è un procuratore che
dinanzi alla pioggia di esposti, prima ancora di acquisire le
risultanze istruttorie ad essi relative aveva dichiarato che non
avrebbe comunque interrotto l’esecuzione di Eluana –
pardon – l’esecuzione del decreto della Corte
d’Appello di Milano. Adesso magari l’autopsia ordinata
da quello stesso procuratore ci dirà che è tutto a
posto, che va bene così, tutto in ordine. I tecnici scelti
da quello stesso procuratore ci diranno rassicuranti che è
cosa normale che una persona la cui sopravvivenza alla fame ed alla
sete era stata stimata in almeno quindici giorni dallo stesso
neurologo che la seguiva, Prof. De Fanti, si spenga dopo novantasei
ore di fame, sete e sedativi. Le norme sono state rispettate, il
dettato dei giudici adempiuto, giustizia è fatta: Eluana
doveva morire ed è morta.

     L’équipe di disidratatori
sarà forse indagata e certamente assolta, come nel caso
Welby.

     Nessuno dei magistrati interessati
ricorderà che la deprecabile sentenza del 2007 della Corte
di Cassazione (sulla quale si fonda il decreto della Corte
d’Appello di Milano) prevedeva quali presupposti per
l’interruzione dell’alimentazione e
dell’idratazione l’assoluta certezza sulla
irreversibilità dello stato del paziente e sulla effettiva
volontà dello stesso, certezze che in questo caso erano a
dir poco evanescenti. Quella sentenza, tanto sbandierata dai pro
morte quando uscì, i giudici di certo non se la
ricorderanno; del resto hanno dimenticato anche le tante altre
norme che avrebbero potuto e dovuto salvare Eluana. Ma dobbiamo
comprenderli, si tratta di norme secondarie, perse nelle pieghe
dell’ordinamento, cavilli e busillis come l’articolo 2
della Costituzione (diritti inviolabili dell’uomo),
l’art. 3 della Costituzione (principio di uguaglianza formale
e sostanziale tra tutti gli esseri umani), l’art. 32 della
Costituzione (tutela del diritto alla salute), l’articolo 579
del Codice Penale (omicidio del consenziente), l’articolo 580
del Codice Penale (aiuto o istigazione al suicidio),
l’articolo 5 del Codice Civile (divieto di atti di
disposizione del proprio corpo), la Legge 833/78 (istitutiva del
Servizio Sanitario Nazionale). Povero Diritto.

     Con questa storia triste e violenta, la
mentalità di chi vede nella morte un rimedio ha gettato la
maschera. Nulla di dolce c’è stato nell’addio di
Eluana, che in meno di una settimana è stata strappata alle
cure di chi l’accudiva e portata a morire da sola tra gli
”inspiegabili” e continuati accessi di tosse che
l’hanno presa da quando è stata portata via da
Lecco.

     Questa mentalità, che si ammanta di
un assurdo rispetto per le idee di chi vuol la morte e non tollera
che altri difendano la realtà oggettiva ed indiscutibile
della vita, abbraccia politici laici e “cattolici”, da
Gianfranco Fini a Livia Turco, da Walter Veltroni a Benedetto Della
Vedova, rd annovera tra i suoi seguaci figurine à la page
come il Dalai Lama e Roberto Saviano, e tutta quella ridda di
persone che hanno dichiarato che andava bene così, che un
padre che chiede la morte della figlia va compreso, rispettato,
assecondato.

     Ora qualcuno pretende il silenzio.
C’è poco da pretendere: il silenzio è
già arrivato, in quella stanza di Udine dove Eluana è
morta sola.

     Ora altri accelerano per una legge sul
testamento biologico, che con questa vicenda nulla c’entra
quantomeno perché Eluana non aveva fatto testamento
biologico e molto difficilmente l’avrebbe fatto, a diciannove
anni.

     Altri ancora diranno che non si pentono di
quel che hanno fatto, che lo rifarebbero ancora. Ma sì, in
fondo se nel ventunesimo secolo qualcuno muore di fame e di sete
per mano medica è bene che gli altri stiano zitti. In fondo,
è stato detto, è una liberazione. Ma per chi? Eluana
è morta. Ora, almeno, sono tutti d’accordo che lo sia.
Nelle sue ultime ore, si consumava lo scontro tra chi difendeva la
vita e chi venerava la propria personalissima e dubbia idea di
Costituzione, ponendola al di sopra della vita di un essere umano
indifeso; l’inattesa resistenza del Governo e di ampia parte
dell’opinione pubblica a quel che stava succedendo aveva
lasciato germogliare un incredulo sussurrato ottimismo. Ma poteva
essere ottimista solo chi non avesse conoscenza del deserto
ideologico in cui la povera Eluana era stata trascinata.



In effetti, già poche ore dopo l’avvio del
“Protocollo di disidratazione” che avrebbe portato
Eluana a morire di fame e di sete l’équipe di
disidratatori che la seguiva aveva dichiarato che le procedure
sarebbero state accelerate. Il senso era chiaro: mettere il Paese,
e la politica dinanzi al fatto compiuto. E ci sono riusciti.



Adesso il padre di Eluana chiede silenzio, vuol restare solo.
Strano, in questa vicenda, il rapporto di Beppino Englaro con i
media e l’opinione pubblica: quando otteneva un provvedimento
favorevole alle proprie tesi, che apriva ad Eluana le porte del
camposanto, aveva bisogno di star solo, di chiudersi nel silenzio;
non appena interveniva qualche intoppo che poteva far dubitare che
sua figlia sarebbe stata effettivamente uccisa, allora lo si
ritrovava sui giornali, anche internazionali, in tv, alla radio,
sul web che dichiarava, meditava, esitava. C’era lui, sempre
lui, non sua figlia.



Ma quando Eluana è morta, era sola.



Non c’era nessuno in quella stanza: il padre Beppino Englaro
era a Lecco, come pure la madre. Non c’era un infermiere, un
medico, nessuno di quelli che avrebbero dovuto “accompagnarla
al riposo con presenza costante ed attenta”,
com’è stato scritto da qualcuno.



Ad Udine c’è un procuratore che dinanzi alla pioggia
di esposti, prima ancora di acquisire le risultanze istruttorie ad
essi relative aveva dichiarato che non avrebbe comunque interrotto
l’esecuzione di Eluana – pardon –
l’esecuzione del decreto della Corte d’Appello di
Milano. Adesso magari l’autopsia ordinata da quello stesso
procuratore ci dirà che è tutto a posto, che va bene
così, tutto in ordine. I tecnici scelti da quello stesso
procuratore ci diranno rassicuranti che è cosa normale che
una persona la cui sopravvivenza alla fame ed alla sete era stata
stimata in almeno quindici giorni dallo stesso neurologo che la
seguiva, Prof. De Fanti, si spenga dopo novantasei ore di fame,
sete e sedativi. Le norme sono state rispettate, il dettato dei
giudici adempiuto, giustizia è fatta: Eluana doveva morire
ed è morta.



L’équipe di disidratatori sarà forse indagata e
certamente assolta, come nel caso Welby.



Nessuno dei magistrati interessati ricorderà che la
deprecabile sentenza del 2007 della Corte di Cassazione (sulla
quale si fonda il decreto della Corte d’Appello di Milano)
prevedeva quali presupposti per l’interruzione
dell’alimentazione e dell’idratazione l’assoluta
certezza sulla irreversibilità dello stato del paziente e
sulla effettiva volontà dello stesso, certezze che in questo
caso erano a dir poco evanescenti. Quella sentenza, tanto
sbandierata dai pro morte quando uscì, i giudici di certo
non se la ricorderanno; del resto hanno dimenticato anche le tante
altre norme che avrebbero potuto e dovuto salvare Eluana. Ma
dobbiamo comprenderli, si tratta di norme secondarie, perse nelle
pieghe dell’ordinamento, cavilli e busillis come
l’articolo 2 della Costituzione (diritti inviolabili
dell’uomo), l’art. 3 della Costituzione (principio di
uguaglianza formale e sostanziale tra tutti gli esseri umani),
l’art. 32 della Costituzione (tutela del diritto alla
salute), l’articolo 579 del Codice Penale (omicidio del
consenziente), l’articolo 580 del Codice Penale (aiuto o
istigazione al suicidio), l’articolo 5 del Codice Civile
(divieto di atti di disposizione del proprio corpo), la Legge
833/78 (istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale). Povero
Diritto.



Con questa storia triste e violenta, la mentalità di chi
vede nella morte un rimedio ha gettato la maschera. Nulla di dolce
c’è stato nell’addio di Eluana, che in meno di
una settimana è stata strappata alle cure di chi
l’accudiva e portata a morire da sola tra gli
”inspiegabili” e continuati accessi di tosse che
l’hanno presa da quando è stata portata via da
Lecco.



Questa mentalità, che si ammanta di un assurdo rispetto per
le idee di chi vuol la morte e non tollera che altri difendano la
realtà oggettiva ed indiscutibile della vita, abbraccia
politici laici e “cattolici”, da Gianfranco Fini a
Livia Turco, da Walter Veltroni a Benedetto Della Vedova, rd
annovera tra i suoi seguaci figurine à la page come il Dalai
Lama e Roberto Saviano, e tutta quella ridda di persone che hanno
dichiarato che andava bene così, che un padre che chiede la
morte della figlia va compreso, rispettato, assecondato.



Ora qualcuno pretende il silenzio. C’è poco da
pretendere: il silenzio è già arrivato, in quella
stanza di Udine dove Eluana è morta sola.



Ora altri accelerano per una legge sul testamento biologico, che
con questa vicenda nulla c’entra quantomeno perché
Eluana non aveva fatto testamento biologico e molto difficilmente
l’avrebbe fatto, a diciannove anni.



Altri ancora diranno che non si pentono di quel che hanno fatto,
che lo rifarebbero ancora. Ma sì, in fondo se nel
ventunesimo secolo qualcuno muore di fame e di sete per mano medica
è bene che gli altri stiano zitti. In fondo, è stato
detto, è una liberazione. Ma per chi?






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