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Licenza di uccidere

Licenza di uccidere

Relazione al convegno 18 maggio 2019 Università Lumsa – Roma

1. Come abbiamo spesso sentito dai media, negli Stati Uniti, da molti anni, è in corso una battaglia politica e giudiziaria sulla pena di morte, prevista nella maggioranza degli Stati. La Corte Suprema degli Stati Uniti è più volte intervenuta non solo sulla conformità della pena capitale alla Costituzione americana, ma anche sui metodi da utilizzare per le esecuzioni, tenuto conto del divieto di infliggere “pene crudeli ed inusuali”. Dopo aver negato nel 1878 che la fucilazione fosse una pena crudele e nel 1890 che anche la sedia elettrica lo fosse, la Corte Suprema si è occupata nelle sentenze Baze v. Rees del 2008 e Glossip v. Gross del 2015 del metodo “scientifico” che ha preso piede, quello dell’iniezione letale, in entrambi i casi confermandone la liceità: la posizione è stata ribadita anche quando la sostanza che viene iniettata per prima, il pentotal, un potente barbiturico ad effetto rapido che induce nel condannato un profondo stato di incoscienza simile al coma affinché questi non soffra, è divenuto difficile da reperire ed è stato sostituito dal midazolam, un agente sedativo appartenente alla famiglia delle benzodiazepine, che dovrebbe avere il medesimo effetto ma che, in certe esecuzioni, è risultato inefficace.La Corte Suprema, pur consapevole della incertezza sull’efficacia del midazolam, ha ribadito che il suo uso è legittimo perché la pena di morte è prevista dalla Costituzione americana; e, in un passaggio, ha osservato: “poiché un certo rischio di dolore è connaturato ad ogni metodo di esecuzione, abbiamo ritenuto che la Costituzione non richieda che qualunque rischio di sofferenza debba essere eliminato”.Pochi giorni fa, la Corte Suprema, ancora una volta, ha risposto al ricorso del condannato Russel Bucklew che la Costituzione “non garantisce una morte indolore ad un detenuto”.

2. Mi chiedo se la Corte Costituzionale italiana abbia tenuto conto di queste controversie sul metodo più rapido ed indolore per determinare la morte di un uomo quando, nell’ordinanza n. 207 del 2018, ha osservato che “la legislazione oggi in vigore non consente al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente (…) trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. In tal modo, si costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”.La Corte ha suggerito – o forse, meglio: intimato – al Parlamento di adottare “una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte”, ribadendo anche successivamente il suo favore per “l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente”.Un dubbio: il legislatore dovrà indicare il farmaco più adatto per provocare una morte rapida ed indolore o dovrà farlo un decreto ministeriale? E, nella scelta di tale farmaco, dovranno essere approfonditi i tentativi e le ricerche scientifiche svolte negli Stati Uniti per giungere ad una pena capitale che non sia “crudele”? Del resto, quelli che vengono somministrati ai condannati a morte sono, appunto, farmaci: il pentotal veniva prodotto anche in Italia, mentre in Europa sono prodotti da imprese farmaceutiche altri barbiturici utilizzati nelle esecuzioni capitali (in particolare il pentobarbital viene usato per il suicidio assistito ma è stato usato anche per l’esecuzione di condanne a morte). Sappiamo che la parola « farmaco » ha la sua radice etimologica nel termine greco ϕάρμακον, traducibile come « rimedio » ma anche come « veleno ».In realtà, uno dei problemi che si presentano nell’esecuzione della pena capitale è l’assenza di medici che, per motivi deontologici, nella quasi totalità dei casi non prendono parte alle esecuzioni: un problema che, come vedremo subito, nell’ipotesi prevista dalla Corte Costituzionale non si pone.

3. Vediamo, allora, le caratteristiche di questa nuova disciplina che il legislatore dovrebbe introdurre, secondo quanto intima la Corte Costituzionale.In primo luogo, ad uccidere il paziente dovrebbe essere un medico: la Corte, infatti, rappresenta il rischio che “in assenza di una specifica disciplina della materia, qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino”: non sia mai! Si deve fare “in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della «relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico»”!In secondo luogo, la somministrazione della morte rapida e indolore deve giungere dopo una “procedura”: il legislatore dovrà configurarla prevedendo “le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo ‘processo medicalizzato’, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale”; ancora, nella procedura dovrà essere previsto “il coinvolgimento in un percorso di cure palliative, che dovrebbe costituire un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”.Infine, la somministrazione della morte rapida e indolore, al termine di questa procedura, dovrà essere garantita dallo Stato: abbiamo già visto il riferimento alla somministrazione dei trattamenti da parte del servizio sanitario nazionale; ma, subito dopo, la Corte Costituzionale fa un fugace riferimento alla “possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura”. Si potrebbe osservare: bene! Almeno questo … ma se si prevede la possibilità dell’obiezione di coscienza rispetto ad una pratica sanitaria significa che questa pratica è obbligatoria per il medico (salvo, appunto, che sollevi obiezione di coscienza) e garantita dallo Stato. Pensiamo alla legge 194 sull’aborto: è prevista l’obiezione di coscienza per i medici che non vogliono praticare aborti ma nell’ambito di un obbligo generalizzato: e infatti, dice l’art. 9, “gli enti ospedalieri e le case di cura sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza” e la Regione ne deve controllare e garantire l’attuazione.

4. Quando mi è stato chiesto dal Comitato Verità e Vita di scrivere un libro a commento della legge 219 del 2017 sul consenso informato, DAT e dintorni, mi è venuto in mente questo titolo un po’ provocatorio, che echeggia il famoso film “007 Licenza di uccidere” in cui Sean Connery combatte il Dottor No, avendo, appunto, licenza di uccidere in nome della Regina.Non pensavo sinceramente che, prima ancora che il libro fosse pubblicato, sarei stato superato dalla Corte Costituzionale: in effetti, il titolo giusto ora potrebbe essere “Dovere di uccidere” (ma esistono già un giallo di un famoso giallista svedese e un saggio di Vittorio Strada con questo titolo): la Corte afferma che, in certi casi, lo Stato ha l’obbligo, con i medici del Servizio sanitario nazionale, di somministrare un farmaco rapido e indolore per provocare la morte di una persona; e che i medici, a loro volta, saranno obbligati a farlo, a meno che non venga loro riconosciuto dal legislatore l’obiezione di coscienza (ipotesi, per la verità, assai incerta alla luce della mancata previsione dell’istituto sia nella legge sulle unioni civili che, appunto, nella legge 219 del 2017).Questo principio di rango costituzionale – l’obbligo dello Stato di uccidere alcune persone –, mai affermato in precedenza (anzi: la Costituzione è stata modificata per impedire in ogni caso la pena di morte), trova la sua fonte nella legge 219, come la Corte indica espressamente: infatti, l’ordinanza prima afferma la legittimità – anzi: la doverosità – del divieto penale dell’aiuto al suicidio (con argomentazioni che affronteremo in seguito), e poi, con una virata a 180 gradi, contempla un’eccezione.La Corte dice: “la decisione di lasciarsi morire potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua. Ciò, segnatamente in forza della recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento): legge che si autodichiara finalizzata alla tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 1, comma 1)”. Nel prosieguo del provvedimento le diverse previsioni della legge 219 vengono più volte richiamate.Notate: la Corte usa un termine strano – la legge si “autodichiara” finalizzata alla tutela di vita, dignità e autodeterminazione – ma si guarda bene da verificare se a questa autodichiarazione del legislatore corrisponda davvero la tutela proclamata; del resto, non è un atteggiamento nuovo: anche la legge 194 proclama “la tutela della vita umana dal suo inizio”, ma la Corte si è sempre rifiutata di verificare se l’aborto libero, gratuito ed assistito fosse compatibile con questo proclama …

5. Ovviamente si può replicare: l’obbligo di uccidere è previsto nei confronti di coloro che l’hanno chiesto e, per di più, soltanto se si trovano in determinate condizioni molto gravi; in effetti, l’ordinanza della Corte Costituzionale lo limita “alle ipotesi in cui il soggetto si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”; soggetto che eserciterebbe, dice la Corte, la propria “libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.”; quindi, al dovere di uccidere da parte dello Stato corrisponde il diritto di essere ucciso da parte del malato; in poche parole: il diritto di morire e non il dovere di morire.Ecco: la legge 219 è fondata su queste due illusioni: che il contenuto delle norme riguardi il trattamento delle persone vicine alla morte, dei malati gravi e inguaribili che soffrono dolori insopportabili e che la scelta del legislatore sia stata quella di riconoscere – finalmente! – un nuovo diritto: quello di morire serenamente senza soffrire e di rifiutare liberamente terapie inutili, anche per il futuro, con il testamento biologico; cosicché, negli incontri in cui spiego il contenuto della legge mi accorgo che le persone che ascoltano si aspettano di sentire parlare di qualcosa che non li riguarda direttamente, almeno per il momento.Il mio tentativo è di svelare che si tratta, appunto, di illusioni, partendo dalla consapevolezza che il diritto a rifiutare le terapie salvavita e ad ottenere un “suicidio medicalmente assistito” si accompagna sempre – e inevitabilmente – all’uccisione delle persone che non l’hanno chiesto, senza o contro la loro volontà.Chi si illude che gli venga riconosciuto il “diritto di morire”, non si accorge che la spinta sociale, filosofica e normativa è verso il “dovere di morire” di alcune categorie di persone; soprattutto, non si accorge che al legislatore che ha introdotto il diritto al suicidio medicalmente assistito (immediato o per il futuro, tramite testamento biologico) interessa soltanto l’eutanasia non consensuale di determinati soggetti: il riconoscimento della piena autodeterminazione sulla propria vita è lo strumento per introdurre e legalizzare il fenomeno esattamente opposto, la piena eterodeterminazione sulla vita altrui.Insomma, al legislatore (non solo in Italia: in tutto il mondo, pensiamo soltanto alla Gran Bretagna e alla Francia) non interessa affatto come muoiano Piergiorgio Welby o Fabiano Antoniani (DJ Fabo); al Parlamento interessava che vengano uccisi i soggetti in stato vegetativo, i neonati con disabilità, i bambini gravemente malati, gli anziani in stato di demenza o poveri, i malati cronici …Quindi la legge riguarda tutti, perché tutti, prima o poi, ci ammaliamo o diventiamo disabili, invecchiamo e ci avviciniamo al termine della vita.

6. Facciamo, allora, qualche approfondimento pratico – l’analisi è di carattere pratico: il tentativo è di capire come funziona davvero la legge – sul contenuto della legge.Partiamo dalle DAT, le Disposizioni anticipate di trattamento, quelle con le quali, dice l’art. 4, “ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi (…) può (…) esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso e il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”. Il famoso “testamento biologico” che, si dice, finalmente è stato riconosciuto a ciascuno di noi.Proviamo a confrontare questo istituto con i principi del “consenso libero e informato” e della “relazione di cura e fiducia tra paziente e medico” proclamati dall’art. 1 (art. 1 legge 219: “La presente legge (…) stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata (…). E’ promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato …”).
L’informazione.La legge prevede che le DAT siano redatte “dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte” (art. 4 comma 1): come si verifica questa circostanza?E’ molto semplice: non si verifica affatto. Le DAT si possono presentare all’Ufficio di Stato civile del Comune di residenza, quindi ad un impiegato amministrativo il quale – lo dice una circolare del Ministero dell’Interno – deve “limitarsi a verificare i presupposti della consegna, con particolare riguardo all’identità ed alla residenza del consegnante nel Comune – e a riceverla”; pensate che, in un parere reso al Ministro della Salute, il Consiglio di Stato afferma espressamente che l’esistenza delle informazioni di carattere medico non incide sulla validità dell’atto, ritenendo opportuno che venga autocertificata.Ancora: teniamo conto che la DAT può essere redatta su un modulo precompilato (ce ne sono molti in giro, alcuni si rinvengono nei siti web dei Comuni), facendo una crocetta sulle opzioni scelte. Con questo gesto – che richiederà qualche minuto – una persona stabilisce che, in un futuro incerto, la sua vita potrebbe essere fatta cessare in anticipo perché certe terapie salvavita non gli saranno erogate.

7. Faccio una riflessione. Mi pare evidente che, anche se una persona, prima di sottoscrivere una DAT, avesse acquisito una grande quantità di informazioni di carattere sanitario, essa non sarebbe affatto “informata” (e quindi non avrebbe prestato un rifiuto informato), perché non avrebbe la percezione del dolore e della malattia che ipotizza possa colpirla e in quanto la disposizione dettata nel documento non inciderebbe immediatamente dopo sulla prosecuzione della sua vita.In altre parole: è fin troppo facile affermare di “non voler vivere in determinate condizioni” (è il ragionamento suggestivo con cui veniamo sollecitati a sottoscrivere le DAT: “non vorrai mica restare attaccato ad un macchinario?”), se queste condizioni non si conoscono e se, nel momento di cui l’affermazione viene enunciata (e il documento sottoscritto), gli effetti della mancata erogazione della terapia salvavita o del sostegno vitale – cioè, la morte, spesso rapida – sono “lontani” e ipotetici.In realtà, non sorprende affatto che il legislatore abbia fatto in modo che le DAT siano redatte da persone non adeguatamente informate e che, quindi, non sono in grado di esprimere un giudizio effettivo sulla condizione in cui potrebbero trovarsi: quel giudizio lo ha già fatto per noi il Parlamento; ha già deciso che le terapie nei confronti di soggetti in stato vegetativo o gravemente malati in stato di incoscienza o di anziani in stato di demenza sono “futili” (per usare l’espressione adottata dal giudice inglese per le terapie nei confronti di Alfie Evans), “un’ostinazione irragionevole” (così il Tribunale amministrativo per Vincent Lambert): le DAT sono un “via libera” ad una valutazione già presa.

8. Parliamo allora della libertà (“un consenso libero e informato”): come farà l’impiegato dello Stato civile del Comune a capire se quella persona anziana, accompagnata da parenti o, ad esempio, dai responsabili della casa di riposo in cui vive, è davvero libero di presentare la Disposizione anticipata di trattamento? Non può capirlo, anzi, deve disinteressarsene. E siamo davvero sicuri che certe persone avranno compreso di avere firmato una DAT?L’autodeterminazione della persona – uno dei principi fondamentali della legge – è un requisito formale o sostanziale?Il depresso che chiede di essere ucciso (come è recentemente avvenuto per una giovane insegnante siciliana, aiutata a suicidarsi in Svizzera dalla stessa associazione che aveva aiutato anche Fabiano Antoniani) deve essere rispettato nella sua autodeterminazione, è veramente libero o è meglio che venga curato nella sua depressione e non ascoltato nella sua richiesta di morire?Pensate che in un libro di stampo femminista ho trovato voci contrarie ad una legislazione che autorizzi il suicidio assistito e l’eutanasia perché rischiano di penalizzare le donne, proprio sotto il profilo della libertà di scelta: esse, dice l’Autrice, rischiano di essere influenzate dall’ “equazione morale tra bontà e sacrificio di sé”, tipico della femminilità. In parole povere, le donne anziane potrebbero convincersi che la loro morte sia un sacrificio doveroso a favore di altri.

9. E veniamo alla relazione di cura e fiducia tra paziente e medico.
Le DAT funzionano così: giunge un paziente in stato di incoscienza e che necessita di interventi salvavita (non necessariamente in stato di urgenza: la legge fa riferimento alla “incapacità di autodeterminarsi”), viene assegnato a un medico o a più medici che non lo conoscono, risulta la sottoscrizione di una DAT in cui si rifiuta ogni trattamento salvavita (non ci nascondiamo dietro ad un dito: il contenuto della DAT è questo, e solo questo) e i medici, senza conoscerlo, senza sapere in quali condizioni il documento era stato presentato, se il soggetto era informato o, all’epoca, era depresso o aveva dei problemi, sono obbligati a non prestare le terapie salvavita e a lasciar morire il paziente, anche se hanno a disposizione strumenti e terapie che potrebbero salvarlo e farlo guarire.Si, obbligati: la legge dice che “il medico è tenuto al rispetto delle DAT”; e pensate che, all’art. 1, la legge proclama che sono rispettate “la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”! Comprendiamo bene dove sono finite la competenza e l’autonomia professionale!E se il medico vuole fare il suo lavoro secondo scienza e coscienza? Egli può – non deve, può – disattendere le DAT, ma solo se raggiunge un accordo con il fiduciario; e se non c’è accordo deve rivolgersi ad un giudice e lo deve convincere che esistono “terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita del paziente”.Il fatto è che, se il medico lascia morire il paziente “è esente da responsabilità civile e penale”; se, invece, vuole fare bene il suo lavoro, non solo deve rivolgersi al giudice in contraddittorio con il fiduciario e, ovviamente, vedersela con la Direzione del suo ospedale (che certamente non ama le controversie giudiziarie), ma non ha più alcun “paracadute legale”.Se lasci morire il paziente, sei al sicuro; se cerchi di curarlo, rischi spese legali, provvedimenti disciplinari, richieste di risarcimento danni…

10. Concludo sulle DAT tornando sul tema della libertà: se ogni persona può redigere una DAT anche se si trova in ottimo stato di salute, può anche revocarla se ha cambiato idea; e se questo avvenisse in una situazione di urgenza? Se, ad esempio dopo un incidente stradale che le ha provocato gravi ferite, la persona si rendesse conto, prima di perdere conoscenza (magari perché sottoposto ad un intervento di urgenza) che il quadro è cambiato? Che l’unica cosa importante è salvare la propria vita e tornare alla sua famiglia e che per ottenere questo è disposto a tutto e vuole tutte le terapie possibili?La legge, premurosamente, prevede il caso: “Nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT con le forme previste dai periodi precedenti, queste possono essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni”. Ecco la rappresentazione plastica del soggetto “ingabbiato” dalle DAT! In quella situazione drammatica, se non c’è un medico e due testimoni (quindi tre persone contemporaneamente presenti sul posto), quello che ha scritto anni prima – magari in una situazione di totale inconsapevolezza – prevarrà ed egli sarà lasciato morire, senza che il medico rischi alcuna conseguenza civile e penale.Scherzando (ma non troppo) do spesso questo consiglio: se avete firmato una DAT, quando viaggiate in auto portate sempre con voi un medico e due testimoni…

11. Esaminando le DAT abbiamo compreso, quindi, quanto davvero conti per il legislatore l’esistenza di un “rifiuto libero e informato” a tutte le terapie: e, in effetti, anche per quanto riguarda il rifiuto attuale da parte del paziente maggiorenne restano tutti i dubbi che abbiamo già evidenziato.E’ la stessa Corte Costituzionale – in questa ordinanza schizofrenica di cui abbiamo parlato – a rappresentare i rischi di legalizzare l’aiuto al suicidio, anche per motivi di carattere medico.Leggiamo: “L’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio è funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere”.Vedete? La libertà di decidere per la propria morte potrebbe essere vanificata da “interferenze di ogni genere”.E ancora: “Il divieto (di aiuto al suicidio) conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto. Al legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite”.Vedete? Le “interferenze” possono derivare anche da interessi di chi vuole indurre al suicidio e colpisco le persone psicologicamente fragili, depresse, anziane, in solitudine … insomma tutte quelle che la nostra società inizia a considerare inutili, improduttive, costose per tutti, pesanti da sopportare.L’autonomia individuale, dice la Corte, non può essere considerata in maniera astratta, ma nel concreto!Ma la Corte, benché consapevole di questi rischi, sollecita il legislatore ad ampliare le maglie della legge 219, anche se esplicitamente teme “scenari gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di vulnerabilità” ed uccisioni di soggetti “senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti”!Occorre davvero aggiungere altro? La legge 219 considera vincolante qualunque rifiuto di terapia, anche il più irragionevole (“il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”) e non tutela in alcun modo i soggetti fragili dalle interferenze: in nessun modo, è solo previsto un colloquio in più con il medico, nient’altro.

12. Ma la reale volontà del legislatore si comprende alla luce della regolamentazione per i minori e gli incapaci (articolo 3 della legge): saranno i genitori del minore, il tutore dell’interdetto o l’amministratore di sostegno del soggetto assistito a poter rifiutare ogni trattamento sanitario, anche salvavita, così da poter provocarne la morte.Potrebbe sembrare una questione secondaria: ma non dobbiamo dimenticare che ad essere colpiti dall’odio profondo verso la vita umana che pervade la società sono innanzitutto e primariamente i soggetti “deboli” ed “imperfetti”; essi – nella maggior parte dei casi – sono minori di età oppure possono essere interdetti o sottoposti ad amministrazione di sostegno: quindi neonati o bambini in tenera (o meno tenera) età, persone prive di capacità di comprensione o incapaci di manifestare la propria volontà, come i soggetti che si trovano in stato vegetativo persistente, o affette da deficit intellettivo, anziani in stato di demenza progressiva, malati cronici giunti ad uno stadio avanzato della malattia.Queste persone sono considerate inutili per la società perché non producono, né produrranno mai ricchezza; sono viste come un costo che pesa sui conti pubblici e sui patrimoni familiari; la loro assistenza è gravosa, sia dal punto di vista economico che psicologico; esse danno scandalo, perché dimostrano che la vita esiste e ha un valore e una dignità anche quando è segnata dall’handicap, dalla malattia anche grave, dalla demenza e che addirittura può essere felice in queste condizioni (vi ricordate? Il Giudice inglese che dette il via libera all’uccisione di Alfie Evans non si nascose di aver trovato una famiglia felice).Nell’ideologia che propugna l’eutanasia queste persone “devono” morire, hanno il “dovere di morire”. Quindi, se non scelgono di farsi uccidere – perché non sono in grado di esprimersi o di manifestare una volontà valida – devono essere eliminate ugualmente sulla base della decisione di altre persone: quindi senza il loro consenso o addirittura contro il loro consenso, esplicito o implicito.Nel mondo la grande maggioranza delle uccisioni di questi soggetti vengono decise così: come l’aborto è l’uccisione di un uomo che disperatamente vuole continuare a crescere, così – in Italia e nel resto del mondo – i casi come quello di Eluana Englaro si moltiplicano, dimostrando la volontà di uccidere persone che non hanno mai chiesto di morire, attribuendo ad altri – per esempio ad un tutore – il potere di ordinarne la morte sulla base dei criteri di “qualità della vita” propri di chi decide.Ecco perché l’articolo 3 è il nucleo di questa legge: permetterà che si ripeta un “caso Englaro” senza alcuna necessità di una pronuncia giurisdizionale; permetterà di applicare il Protocollo di Groningen sui neonati disabili e prematuri e rendere effettivo l’aborto post-natale teorizzato da Giubilini e Minerva (e, come purtroppo abbiamo visto, concretamente attuato in alcuni Stati americani); costituisce un rischio per tutti gli adulti, soprattutto se anziani, che si trovino in stato di incoscienza o di demenza e che, quindi, potranno essere sottoposti ad interdizione o ad amministrazione di sostegno (che potrebbero essere richieste proprio con questa finalità): i tutori e gli amministratori di sostegno potranno negare il consenso a nuove terapie od interventi da eseguire quando il paziente non è più in stato di coscienza o non è in grado di manifestare la propria volontà, o revocare il consenso a terapie in corso; ma potranno già prima non autorizzare interventi diagnostici per la ricerca di patologie. Le loro disposizioni saranno vincolanti per le strutture che dovranno garantire “la piena e corretta attuazione dei principi della legge” (art. 1, comma 9).

13. Ecco l’eutanasia non consensuale già legalizzata, alla quale la Corte Costituzionale vuole dare il proprio contributo: visto che devono morire, perché aspettare facendogli soffrire? Meglio “la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte”! Una soluzione rapida e pulita …Abbiamo già visto che l’ordinanza vorrebbe delimitare questa pratica ad ipotesi limitatissime: il fatto è che i quattro requisiti indicati dalla Corte per dar corso all’uccisione diretta del paziente sono palesemente fragili, assomigliano ai famosi “paletti” di un’altra legge (la legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita) che, come sappiamo, sono caduti uno ad uno.Abbiamo già parlato della necessità che la persona sia “capace di prendere decisioni libere e consapevoli”, verificando che la legge 219, su cui la Corte si appoggia, non lo garantisce affatto; vediamo gli altri tre requisiti.”Patologia irreversibile”: quanto deve essere grave? E perché deve essere irreversibile, se il diritto a rifiutare le terapia salvavita e le forme di sostegno vitale è riconosciuto anche a coloro che hanno patologie curabili?”Sofferenze fisiche o psicologiche, che (il paziente) trova assolutamente intollerabili”: notiamo il riferimento alle sofferenze “psicologiche” e l’indicazione di un criterio esclusivamente soggettivo per determinare l’intollerabilità delle sofferenze; potranno essere considerate intollerabili anche sofferenze oggettivamente modeste?Infine, la persona deve essere “tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”: ma la Corte non tiene presente che la legge 219 del 2017 equipara le forme di sostegno vitale (nutrizione e idratazione) alle terapie e che la respirazione artificiale, da tempo (fin dal caso Welby), è considerata trattamento terapeutico, come tale rinunciabile; e allora, perché riconoscere il diritto di farsi uccidere soltanto a chi dipende da forme di sostegno vitale e non a chi è mantenuto in vita da terapie salvavita?
In definitiva, non è difficile prevedere che – se il Parlamento, invece di abrogare la legge 219, come dovrebbe doverosamente fare, darà corso all’intimazione della Corte Costituzionale – assisteremo ad uccisioni dirette di molti soggetti “fornite” dal Servizio sanitario nazionale.All’inizio vi ho provocato con la pena di morte negli Stati Uniti: mi chiedo se l’accostamento fosse davvero improprio.

14. Questo è il risultato – di cui oggi ho accennato ad alcuni punti – di un lavoro del Parlamento iniziato, di fatto, con l’uccisione di Eluana Englaro e con l’auspicio solenne anche dai vertici della Conferenza Episcopale perché “si varasse una legge sul fine vita che riconoscesse valore legale a dichiarazioni inequivocabili e desse tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato e sul suo rapporto fiduciario con il medico”.Il Comitato Verità e Vita si è sempre pubblicamente opposto all’approvazione di qualunque legge sul “fine vita”, segnalando il rischio che introducesse in maniera surrettizia l’eutanasia; una posizione coerente con la denuncia per omicidio volontario che il Comitato presentò al Procuratore di Udine.Certo: all’epoca non si prevedeva che la legge avrebbe avuto un contenuto così netto, duro, senza vie d’uscita come è la legge 219 e come dimostra l’utilizzo che ne ha fatto la Corte Costituzionale; ma ogni breccia aperta su un principio non negoziabile come il diritto alla vita si trasforma inevitabilmente in uno squarcio in cui la logica di morte, così forte nella nostra società – e contro la quale andremo ora a marciare per la Vita – si insinua e ottiene il risultato cercato.

15. Questa logica si coglie bene da un particolare, con cui concludo.Parliamo della “dignità”, una parola che era già presente nel primo disegno di legge sull’eutanasia, presentato nel 1984 dall’on. Loris Fortuna.L’art. 1, comma 1 della legge 219 recita: “La presente legge, nel rispetto dei principi dei cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona”.Inizialmente il testo prevedeva: “la presente legge … tutela la vita e la salute dell’individuo”; l’Assemblea ha trasformato la “tutela della vita e della salute” in “tutela del diritto alla vita e del diritto alla salute” e ha affiancato a tali diritti anche quelli “alla dignità e all’autodeterminazione”.Non è una modifica banale: si stabilisce che la vita umana non è più tutelata direttamente, come un bene di valore incommensurabile, ma è considerata oggetto di un diritto, come tale bilanciabile con altri diritti, e soccombente in alcuni casi; un diritto che può essere oggetto di rinuncia da parte del titolare.Soprattutto, è significativo l’affiancamento della “dignità” alla “vita”: il legislatore non considera più la dignità una caratteristica intrinseca della vita umana perché, appunto, “tira fuori”, estrae la dignità dalla vita.La visione antropologica è evidente: il Parlamento rifiuta la visione secondo cui l’uomo non ha dignità, ma la dignità è il valore e la preziosità che l’uomo è, e adotta invece quella secondo cui la dignità è attribuita ad un essere umano da altri uomini, è conferita a chi la “merita” sulla base di determinate caratteristiche dell’uomo o delle sue capacità o delle sue azioni: quindi può essere negata.
Ecco: in nome della dignità propria di ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi, dobbiamo combattere contro questa cultura di morte e contro le leggi, come la legge 219, che, selezionando i meritevoli e coloro che non lo sono, permette, anzi promuove o meglio: sollecita l’uccisione di coloro la cui qualità di vita “è povera e senza senso”, trasformando i medici, da nostri alleati e custodi della vita, in esecutori specializzati a dare la morte.

Giacomo Rocchi

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