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L’evidenza dell’umano

L’evidenza dell’umano
  1. L’evidenza dell’umano

  2. Prima di iniziare questo mio intervento, vorrei brevemente raccontarvi perché da più di vent’anni mi prendo cura delle persone in SV. Sono un geriatra mi sono sempre occupato della cura degli anziani. Ho incontrato per la prima volta questa condizione nel 1996. Allora di cosa fosse lo SV sapevo  davvero poco. Nonostante ciò, quando è stata chiesta la mia disponibilità ad assumere la responsabilità di un reparto ad essa dedicato ho detto subito di si. L’ho fatto perché ero rimasto profondamente colpito da questo strano e per certi versi ancora misterioso modo di continuare a vivere, colpito dalla sua povertà esistenziale e dalla radicalità delle domande, di cura, ma non solo, che pone. (L’ho fatto anche perché allora intuivo, oggi ne sono certo, che decidere di prendersi o di non prendersi cura di una condizione come questa finisce con il tracciare un confine superato il quale ogni forma di abbandono sull’essere umano debole o svantaggiato potrebbe trovare la sua giustificazione). Mi ha molto colpito questa riflessione di Anna Arendt, con cui inizio ogni mio incontro sullo SV,  che, pur essendo riferita a tutt’altra questione e cioè alla quella mostruosa esperienza che sono stati i campo di stermino nazisti e ai loro sopravvissuti, coglie in modo davvero efficace il cuore delle questioni poste da questa condizione: ‘”La concezione dei diritti umani cadde in rovina non appena coloro che la professavano si trovarono di fronte per la prima volta individui che avevano perduto ogni altra qualità – eccetto quella fondamentale – di essere uomini”.

 

  1. Cos’è lo SV

  • Lo stato vegetativo è una condizione relativamente recente che per lo più consegue ad uno stato di coma.
  • Il balzo in avanti compiuto dalle terapie intensive negli anni ‘50 se da un lato ha permesso a un numero sempre maggiore di pazienti recuperi sino ad allora insperati, ha dall’altro portato alla comparsa di questa condizione, che è l’esito non voluto e non auspicato di un intervento sanitario sempre più precoce ed efficace.
  • senza entrare in dettagli clinici mi preme sottolineare una cosa: le funzioni vitali di questi soggetti sono conservate, per vivere non hanno bisogno di alcun supporto tecnologico, di nessun macchinario.

 

  1. curva GCLA

    È caratterizzato da un ritorno alla vigilanza, testimoniato dall’ apertura degli occhi, ma senza segni che indichino un sicuro contenuto di coscienza (stato di veglia non responsiva).

    Tra le tante questioni sollevate da questa condizione due sono particolarmente rilevanti.

    La prima riguarda la certezza diagnostica. Definire cosa sia la coscienza è un problema complesso e forse irrisolvibile.  Se per coscienza intendiamo il vissuto personale, le esperienze, i ricordi e le emozioni   che costituiscono ognuno di noi nella sua unicità ed irripetibilità, dobbiamo riconoscere che essa è inaccessibile all’osservazione esterna ed è dunque inesplorabile ed indimostrabile. Nessuno può fare categoriche affermazioni sul contenuto di coscienza della persona che ha di fronte. Come si fa allora a fare diagnosi? solo con l’osservazione. La diagnosi è eminentemente clinica, richiede un’osservazione prolungata e non è facile neanche in ambiti molto specializzati. Per capire la difficoltà basti considerare che il 41% delle diagnosi sono errate.

    La seconda riguarda la sua presunta irreversibilità: quando definiamo permanente uno stato vegetativo noi poniamo un giudizio prognostico, non facciamo una diagnosi, e come tale ha un valore probabilistico, non di certezza. E’ vero che tanto più ci si allontana dal momento di insorgenza, tanto minori sono le possibilità di recupero, ma queste non si azzerano mai.  (i confini della coscienza sono difficili da definire e quantificare in modo soddisfacente, e noi possiamo solo desumere l’autocoscienza degli altri attraverso i loro aspetto e le loro azioni)

 

  1. Nei primi anni ’90, ci si è cominciati a chiedere se pazienti diagnosticati come vegetativi non fossero invece soggetti incapaci di (di)mostrare al mondo esterno la loro consapevolezza. Grazie all’utilizzo delle tecniche di neuroradiologia funzionale vari gruppi di ricercatori hanno dimostrato che la corteccia cerebrale di persone in SV non è affatto morta, ma che è ancora in grado di dare risposte fisiologiche distinte e specifiche a stimoli esterni controllati pur in assenza di risposte comportamentali.

 

 

  1. Non è una malattia (non si muore di SV), ma una grave, la più grave delle disabilità. La vita di chi si trova in questa condizione non dipende da una particolare terapia medica, né dai macchinari della medicina tecnologica, ma da quello da cui noi stessi dipendiamo per vivere: acqua, cibo, igiene, mobilizzazione, relazione. Solo questo, nient’altro.  Intorno a noi vivono tante persone di ogni età la cui vita dipende dalla cura quotidiana di qualcuno. Persone che senza questa cura che lava, alimenta, mobilizza, non potrebbero vivere.  Se consideriamo lo stato vegetativo una malattia gran parte delle domande che da esso sorgono vengono ignorate.     Questa condizione, come ogni altra disabilità, ci obbliga a ripensare alla relazionalità sociale, alle politiche di sostegno e di integrazione che riguardano lui stesso e la sua famiglia troppo spesso posti ai margini della convivenza, esclusi o autoesclusisi per necessità, costretti a sopportare enormi sforzi per continuare a dare cura ed assistenza.  Qui non si tratta di somministrare farmaci o di fare esami. C’è in ballo qualcosa di molto più grave. Si tratta di riaffermare la dignità e il valore della condizione umana, svincolandolo da qualsiasi criterio di efficienza o di utilità.

 

  1. Ci sono condizioni esistenziali in cui la guarigione o il recupero di un’autonomia accettabile sono obbiettivi irrealistici. Ma la non guaribilità o l’impossibilità di un recupero funzionale non sono ragioni sufficienti per negare una cura che trova la sua ragion d’essere proprio nella fragilità e nella debolezza del soggetto che ci sta fronte. Una cura che se anche sa di non può guarire, non lesina sforzi per dare il miglior confort possibile. La nostra è la storia di una presa in carico molto semplice, a basso contenuto tecnologico, ma ad elevato impegno umano ed assistenziale, che sa prendersi cura sempre, senza mai cadere nell’accanimento o nell’abbandono diagnostico o terapeutico.

Una cura impegnata a:

  1. Costruire una relazione, è sempre possibile una relazione
  2. Dare risposta alle concrete e quotidiane esigenze fisiche, che sono le nostre stesse quotidiane e concrete esigenze fisiche
  3. Trattare le patologie intercorrenti – niente di eccezionale si tratta di somministrare un antibiotico o un antipiretico –
  4. Cercare di prevenire le complicanze legate all’immobilità
  5. Dare sollievo al dolore quando presente

Sono gesti semplici lavare, vestire, alimentare, posizionare su una carrozzina, ma che, se fatti nel contesto di forte relazionalità, possono favorire, anche dopo molto tempo, il recupero di una capacità di interazione con le persone e con l’ambiente. Gesti di cura che possono diventare terapeutici.

 

  1. Tre domande sorgono di fronte a questa legge:
    1. Alimentare e idratare una persona gravemente disabile è assimilabile ad una terapia?
    2. È vero che la possibilità di redigere dichiarazioni di trattamento o di porre fine alla propria vita sia oggi il problema più urgentemente sentito da chi si trova a vivere una condizione di malattia o disabilità?
    3. Posso io decidere oggi per una cosa che forse, e non so in che modo, mi accadrà tra molti anni? Quell’io che oggi, in condizioni di benessere, decide, è lo stesso io, ha le stesse domande e necessità, di quello che si potrebbe trovare a vivere una condizione di fatica esistenziale, grande bisogno, malattia o disabilità?

 

 

  1. Il vero motivo per trasformare quello che è un sostentamento ordinario di base in una terapia è per poterlo sospendere applicandogli le categorie della futilità e della sproporzionalità .

 

  1. Oggi rischia di avverarsi e diventare prassi comune questa profezia:Il rifiuto della nutrizione può diventare, nel lungo termine, il solo modo efficace per assicurarsi che un largo numero di pazienti biologicamente resistenti venga a morte.   Considerato il crescente serbatoio di anziani resi disabili dall’età, cronicamente ammalati, fisicamente emarginati, la disidratazione potrebbe diventare a ragione il non trattamento di elezione” (1983)

 

 

  1. 28 agosto 2006 Convenzione ONU sui diritti delle persone disabili. Articolo 25. Gli Stati Parti riconoscono che le persone con disabilità hanno il diritto di godere del più alto standard conseguibile di salute, senza discriminazioni sulla base della disabilità. Gli Stati Parti devono prendere tutte le misure appropriate per assicurare alle persone con disabilità l’accesso ai servizi sanitari che tengano conto delle specifiche differenze di genere, inclusi i servizi di riabilitazione collegati alla sanità. In particolare, gli Stati Parti dovranno: ……(f) prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di cure e servizi sanitari o di cibo e fluidi sulla base della disabilità

 

  1. Seconda questione: una legge sul fine vita era davvero così urgente? Se guardiamo ai numeri, a quello che accade nella realtà e non nelle nostre letture ideologiche, la risposta è no. Non è questa l’urgenza dei malati, la loro vera urgenza è quella di trovare luoghi e persone disposte a rispondere al loro bisogno, a prendersi carico delle loro fragilità. Richieste Eutanasia: i numeri e le cause

 

  1. Terza questione: la qualità della vita per definire il valore dell’esistenza. Quando affrontiamo il problema della vita ‘degna di essere vissuta’ dobbiamo sempre partire da una semplice domanda: chi può prendere una decisione per un’altra persona nella certezza di compiere ciò che egli desidera?

 

  1. Il portavoce Care presso il Comitato ristretto della Camera dei Lord (1994) ha detto: “I disabili sono generalmente più soddisfatti della loro vita di quanto individui fisicamente abili si aspetterebbero se soffrissero della stessa menomazione. La persona sana non opera le medesime scelte della persona malata.

 

  1. Adesso che per me la morte non è più un concetto virtuale non ho nessuna voglia di andarmene», […] «Anche se concluderò la mia vita in un letto con le ossa che rischiano di sbriciolarsi, io ora voglio vivere fino in fondo la mia esistenza». […] «Io di eutanasia non voglio neppure sentire parlare», dice con voce ferma. E del testamento biologico? «Da sana l’avrei sottoscritto, oggi l’avrei voluto stracciare».

 

  1. Quando noi pensiamo a come vorremmo fosse la nostra vita, lo facciamo immaginando un individuo pieno di salute, autonomo nelle sue decisioni, con a disposizione un’ esistenza senza sofferenza, malattia,  disabilità o addirittura senza morte. Ma un tal individuo semplicemente non esiste, al massimo può abitare i nostri sogni.  Una convivenza tra gli uomini, le norme che la fondano,  non si può basare su  un’idea di uomo che non esiste. La disabilità, la sofferenza e la malattia sono condizioni esistenziali che possono riguardare ognuno di noi domani. Oggi si parla del ‘diritto’ di morire, non passerà molto tempo (già avviene in Olanda) e questo diritto a morire si trasformerà in  licenza ad uccidere  chi ci costringe ad faticosa relazione di cura o chi consideriamo un costo, e nel dovere, da parte sua, di accettare la nostra decisione.

 

  1. Richiesta di sospensione della cura. Studio su 29 pazienti in locked in syndrome
  • 7 soddisfatti della propria vita
  • 5 con occasionale depressione
  • 1 ha chiesto una volta di morire
  • 7 mai pensato all’eutanasia
  • 6 hanno pensato all’eutanasia ma poi l’hanno esclusa
  • 3 morti durante lo studio
  • 0 hanno dato ordine di non fare manovre rianimatorie

 

  1. La persona in stato vegetativo manifesta nel suo esistere la condizione esistenziale più spoglia, ma in un certo senso, lo dico con timore e tremore, più essenziale perché di lui resta solo ciò che non potrebbe essere mai surrogabile: il suo stesso essere. Fare qualcosa di assolutamente inutile, in termini efficientistici od utilitaristici, non sempre è privo di rilievo. In una società sono presenti delle realtà segnale che ci dicono del livello di civiltà di una convivenza.  La disponibilità a prenderci cura delle persone in SV è certamente una di queste. La possibilità, anche di fronte alle manifestazioni più sconvolgenti della nostra finitezza, di riconoscere un bene e un valore che comunque permane, significa riaffermare l’assoluta dignità della condizione umana.

Il tempo trascorso a prendermi cura di queste persone non mi ha mai fatto pensare che il mio impegno rappresentasse per loro un surplus di sofferenza inflitta e per me una perdita di dignità professionale, ma mi ha spesso portato a chiedermi se il desiderio che quella loro vicenda umana si concluda sia davvero risposta ad un’esigenza di questi pazienti o non sia invece espressione di una nostra indisponibilità a prendercene cura.

Dott. Guizzetti

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