
La lezione di Wilmut
Ian Wilmut -famoso per la clonazione della pecora Dolly-
abbandona tali ricerche
Le conversioni fanno sempre rumore, e qualche volta danno
perfino fastidio. Figuriamoci l’imbarazzo che i mezzi di
comunicazione stanno provando in queste ore, nel dare la notizia
che Ian Wilmut – lo scienziato di Edimburgo, in Scozia, conosciuto
in tutto il mondo per aver clonato la pecora Dolly – ha deciso di
abbandonare le sue ricerche. Lo studioso aveva ottenuto due anni fa
la licenza per clonare embrioni umani, che vengono poi distrutti.
Ian Wilmut continuerà le sue ricerche sulle staminali, ma
senza ricorrere all’uso di embrioni. Seguirà le orme
del collega giapponese Shinya Yamanaka, il quale ha creato cellule
staminali a partire da pezzetti di pelle di topo, pare senza
clonazione di alcun embrione. Sono passati esattamente dieci anni
da quando nel 1997 Wilmut annunciò di essere riuscito a
ottenere un clone da una cellula di animale adulto. La
comunità scientifica, gli esperti di bioetica e
l’opinione pubblica si divisero: da una parte gli entusiasti,
convinti che un passo importante era stato compiuto sulla strada
del progresso; dall’altra, i critici, preoccupati di fronte
alla possibilità che una simile tecnica venisse usata
disinvoltamente sull’essere umano.
Fin qui la notizia. Che suggerisce almeno tre considerazioni. La
prima, di natura scientifica: la decisione di Wilmut segna una
svolta clamorosa nella breve storia della clonazione che potrebbe
essere giunta al capolinea. Esistono altre strade molto migliori
– sembra dire Wilmut – e dunque potrebbe essere la fine di
quella che ancora oggi non pochi ambienti scientifici e ideologici
indicano come la tecnica del futuro. Perfino le agenzie di stampa
che recano la notizia della “conversione” di Wilmut
giocano “sporco”, e a un certo punto riferiscono
testualmente che la clonazione è decisiva “per trovare
nuove terapie contro la sclerosi laterale amiotrofica (Sla o morbo
di Lou Gherig), una devastante malattia che progressivamente
distrugge quelle cellule nervose chiamate motoneuroni sia nel
cervello sia nel midollo spinale e alla fine porta a paralisi e
alla morte”. Giocano sporco, perché agitano lo spettro
di questa terribile malattia accanto alla parola clonazione.
Lasciando intendere che chi , come Wilmut, lascia questa strada sta
abbandonando al loro destino i pazienti afflitti alla Sla.
Il “gran rifiuto” di Wilmut – ed è questa
la seconda considerazione – dimostra invece che non è
mai esistita alcuna prova certa della utilità della
clonazione umana (e tanto meno dell’uso di embrioni per
produrre cellule staminali). La Chiesa cattolica, come sempre
attenta al principio di realtà e alla verità
innanzitutto, lo aveva detto in tempi non sospetti.
Nell’agosto 2000, rivolgendosi ai ricercatori di tutto il
mondo, Giovanni Paolo II – ammalato di una patologia
degenerativa – aveva detto: “La scienza lascia
intravedere altre vie di intervento terapeutico, che non comportano
né la clonazione né il prelievo di cellule
embrionali, bastando a tale scopo l’utilizzazione di cellule
staminali prelevabili in organismi adulti. Su queste vie
dovrà avanzare la ricerca, se vuole essere
rispettosa della dignità di ogni essere
umano, anche allo stadio embrionale”. Il Santo
Padre si riferiva proprio “ad eventuali progetti o
tentativi di clonazione umana, allo scopo di ottenere organi da
trapiantare: tali procedure, in quanto implicano la manipolazione e
distruzione di embrioni umani, non sono moralmente accettabili,
neanche se finalizzate ad uno scopo in sé
buono”.
Terza e ultima, ma più importante considerazione: le agenzie
di stampa non chiariscono in che misura nella decisione di Ian
Wilmut abbiano pesato le ragioni di carattere morale. Ma è
molto probabile che questo scienziato una mattina si sia guardato
allo specchio, e si sia rivolto quelle domande che tutti i
ricercatori dovrebbero sempre farsi, in quanto uomini: che cosa sto
facendo? In che modo e con che mezzi lo sto facendo? perché
lo sto facendo? Domande che mettono in crisi il modello scientista
e positivista oggi tanto di moda, modello che in Italia ha i suoi
sacerdoti e le sue vestali in personaggi come Umberto Veronesi,
Rita Levi Montalcini, Eldorado Boncinelli. Tutti accomunati
dall’idea che lo scienziato è una specie di
“superuomo” che si colloca al di là del bene e
del male, che la scienza non conosce limiti, e che dentro le mura
di un laboratorio la morale non possa entrare. Ian Wilmut non
è certo il primo – e non sarà grazie a Dio
nemmeno l’ultimo – ricercatore ad abbandonare questo
delirio di onnipotenza, questa assurda pretesa della scienza si
autoassolversi sempre e comunque. Immaginiamo che ora Wilmut
farà più fatica a guadagnare le prime pagine dei
giornali, e che sarà più difficile per lui mettere
piede nei circoli esclusivi dell’alta società inglese.
Ma siamo anche certi di una cosa: che ora, alla sera, egli
potrà addormentarsi serenamente. Pensando – come
insegna nell’Amleto il grande maestro Wilhiam Shakespeare
– che “vi sono molte più cose fra cielo e terra,
Orazio, di quante se ne possono sognare nella tua filosofia”.
Con buona pace degli scientisti di ogni tempo e latitudine.
Mario Palmaro