
Intervento di Giacomo Rocchi alla Commissione Igiene e Sanità del Senato

Lunedì 12 giugno 2017
Senato della Repubblica Commissione Igiene e Sanità audizione informale del dott. Giacomo Rocchi consigliere della Corte di Cassazione Comitato Verità’ e Vita
Testo dell’intervento:
Signor Presidente e signori Senatori, Vi ringrazio per la convocazione a questa audizione informale nell’ambito dell’esame dei disegni di legge in materia di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento; per un magistrato, chiamato ad applicare le leggi, è un onore contribuire al processo legislativo relativo ad un progetto così importante.
Dopo l’approvazione da parte della Camera dei Deputati del progetto di legge, ho redatto, su incarico del Comitato Verità e Vita, un testo che lo analizza e lo commenta per intero.
Depositerò il commento come documentazione integrativa.
In questa sede mi limito ad evidenziare due aspetti dell’articolato approvato dalla Camera dei Deputati e ora all’esame di questa Commissione per i quali emerge un’illegittimità costituzionale che non esito a definire evidente.
1. Il primo ambito è quello della disciplina concernente i minori e gli incapaci dettata dall’art. 3 del progetto.
Benché il primo comma proclami il diritto dei minori o incapaci “alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione” nonché a ricevere “informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle loro capacità” per essere messi nella condizione “di esprimere la propria volontà”, si tratta di enunciazione priva di qualsiasi effetto giuridico.
In effetti, come si comprende dai commi successivi, la “volontà” del minore e dell’incapace non è rilevante dal punto di vista giuridico.
Il reale contenuto della norma si trova nel secondo, terzo e quarto comma: “2. Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la potestà genitoriale o dal tutore, tenendo conto della volontà della persona minore in relazione alla sua età e al suo grado di maturità e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità”.
Norma quasi identiche sono previste per gli interdetti (terzo comma) e per le persone sottoposte ad amministrazione di sostegno la cui nomina preveda la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario (quarto comma).
In sostanza, a decidere i trattamenti sanitari su minori e incapaci sono i genitori del minore, il tutore o l’amministratore di sostegno. Infatti, il minore o l’assistito (quando possono) esprimono la volontà rispetto alle scelte terapeutiche, ma sono i rappresentanti legali ad esprimere il consenso informato di cui all’art. 1.
Essi hanno un potere decisionale identico a quello del paziente maggiorenne capace di agire secondo la regolamentazione dettata dall’art. 1: “nessun trattamento sanitario nei confronti del minore o dell’incapace può essere iniziato o proseguito se privo del loro consenso”; essi, quindi, hanno la possibilità di rifiutare o accettare qualsiasi accertamento diagnostico, la possibilità di rifiutare o accettare qualsiasi trattamento sanitario o anche singoli atti del trattamento stesso e infine quella di revocare il consenso in precedenza prestato, con il conseguente diritto all’interruzione del trattamento.
Questo potere riguarda qualsiasi trattamento sanitario: quindi anche quelli “necessari alla sopravvivenza” del minore o dell’incapace nonché la nutrizione e idratazione artificiale, equiparate ai trattamenti sanitari dall’art. 1, comma 5 del progetto.
I genitori, i tutori e gli amministratori di sostegno potranno impedire che, nei confronti del figlio minore o dell’assistito, sia iniziata la nutrizione o idratazione artificiale o che sia proseguita e hanno il diritto a farla interrompere; analogamente potranno fare per qualsiasi terapia e ancora prima per qualsiasi accertamento diagnostico.
Nessuna norma dichiara inefficace il rifiuto di genitore o tutore o amministratore di sostegno quando l’omesso trattamento determina la morte del figlio o dell’assistito.
Tale regolamentazione contrasta con il testo della Costituzione ma è anche contraddittoria con i principi enunciati dal progetto di legge.
In effetti, l’art. 1, comma 1 del progetto indica il “consenso libero ed informato della persona interessata” come presupposto ineludibile per iniziare o proseguire un trattamento sanitario; il secondo comma, a sua volta, fa riferimento all’autonomia decisionale del paziente come componente della relazione di cura tra paziente e medico.
Ebbene, è evidente che la regolamentazione dell’art. 3 del progetto è opposta a tali principi, attribuendo ad un rappresentante legale, e non alla persona interessata, l’autonomia decisionale e il potere di dare o di negare il consenso informato alle terapie.
Ovviamente – si potrebbe obiettare – ciò è previsto per i casi in cui il paziente non può esprimere tale consenso; e, in effetti, il ruolo dei genitori, tutori e amministratori di sostegno è quello di coadiuvare i minori e gli assistiti nelle loro necessità, anche terapeutiche.
Ma la questione assume un aspetto del tutto differente quando si riconosce al legale rappresentante – come fa l’art. 3 del progetto – il potere di negare il consenso a terapie salvavita e di revocare il consenso precedentemente prestato, così determinando la morte del minore o dell’assistito per mancata somministrazione o interruzione delle terapie necessarie alla sopravvivenza.
Il minore e l’incapace possiedono il diritto inviolabile alla vita (garantito dall’art. 2 della Costituzione) nonché quello ad essere curato adeguatamente (art. 32 della Costituzione): articoli pure richiamati dall’art. 1 del progetto di legge.
Tali diritti non possono essere violati né adulti diversi dall’interessato possono disporne a piacimento: i “diritti inviolabili” spettano all’uomo in quanto tale (art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”); la salute è un “fondamentale diritto dell’individuo” (art. 32), tanto che la Repubblica “garantisce cure gratuite agli indigenti”: è impensabile che da una parte lo Stato garantisca doverosamente la salute dei poveri e dall’altra neghi a minorenni e ad incapaci le terapie necessarie ed opportune.
La “simmetria” disegnata dalla Camera dei Deputati – essendo necessario per le terapie il consenso del maggiorenne capace occorre individuare qualcuno che lo presti anche per i minorenni e gli incapaci – è falsa: qui non si parla di diritti patrimoniali (vendere una casa, accettare un’eredità), ma di diritti personalissimi e indisponibili! In base alla Costituzione, se il minore e l’incapace non possono esprimere il consenso, devono essere curati adeguatamente anche senza di esso. I genitori e i rappresentanti legali possono soltanto collaborare perché al minore e all’incapace siano prestate le terapie opportune.
D’altro canto, la previsione del comma 5 dell’art. 3, che permette il ricorso al giudice tutelare da parte di vari soggetti e del medico, non costituisce una correzione della disciplina di portata tale da renderla conforme ai principi costituzionali.
In effetti, nessuno di questi soggetti è obbligato a rivolgersi al giudice tutelare, cosicché la vita del minore o dell’incapace è rimessa alla loro esclusiva volontà; il medico, poi, è spinto dalla legge a non proporre ricorso da quanto previsto dall’art. 1, comma 6, in base al quale il rispetto del rifiuto di terapie lo renderà “esente da responsabilità civile e penale”.
Per rendere la regolamentazione conforme a Costituzione è necessario stabilire l’inefficacia del rifiuto o della revoca del consenso da parte dei legali rappresentanti che abbiano ad oggetto terapie salvavita o che comunque determinino la morte del paziente; permarrebbe in questo modo l’obbligo del medico di somministrare tali terapie pur in presenza di rifiuto o di revoca del consenso.
Per concludere sul punto, segnalo che l’articolo 3 fa intravedere una vasta gamma di ipotesi di possibili azioni eutanasiche su minori e incapaci: dalla mancata rianimazione di neonati prematuri, disabili o con sindrome di down, in applicazione dei principi del Protocollo di Groningen e dell’aborto post-natale teorizzato da Giubilini e Minerva, all’eutanasia dei minori affetti da grave patologie, al rifiuto di trasfusioni di sangue necessarie per le operazioni sui minorenni, all’eutanasia omissiva su disabili in stato di incoscienza o su anziani in stato di demenza senile o derivante da patologie.
Segnalo ancora che il progetto va addirittura oltre la soluzione giudiziaria adottata per il caso Englaro: per giungere a quella decisione, in effetti, la Cassazione pretese la nomina di un curatore speciale del minore per instaurare un contraddittorio con il tutore e attribuì a quest’ultimo il potere di revocare il consenso alla nutrizione e all’idratazione artificiale solo in quanto “voce dell’interdetta”; il progetto di legge approvato dalla Camera dei Deputati non prevede alcun contraddittorio e attribuisce ai rappresentanti legali un potere proprio di decidere sulla vita del minore e dell’interdetto.
2. La mancata previsione dell’obiezione di coscienza per i sanitari costituisce, poi, un vulnus evidente alla legittimità costituzionale della normativa in esame.
Ricordo che, poiché il progetto prevede espressamente l’efficacia vincolante della revoca del consenso ai trattamenti sanitari salvavita in corso, facendone derivare il diritto all’interruzione del trattamento (art. 1, comma 5), sono ipotizzati come obbligatorie condotte attive da parte dei sanitari, condotte che determineranno la morte del paziente.
In altre parole, i sanitari non dovranno soltanto astenersi dall’erogare terapie, ma dovranno agire per interromperle.
Basta ricordare il caso Welby per comprendere la distinzione: la revoca del consenso al trattamento sanitario salvavita rese obbligatorio – secondo il giudice penale che prosciolse il dott. Mario Riccio – la condotta attiva di spegnere il macchinario che permetteva la respirazione del paziente, determinandone la morte per soffocamento.
Non solo: ai sensi dell’art. 2, comma 1 del progetto di legge, i medici non potranno mai restare estranei alla vicenda della morte del paziente indotta dalla interruzione o mancata somministrazione delle terapie salvavita, ma saranno obbligati ad erogare terapie del dolore e cure palliative fino a giungere alla sedazione palliativa profonda del morente.
In altre parole: anche i medici la cui coscienza vieta di uccidere uomini saranno obbligatoriamente inseriti nelle procedure di carattere eutanasico, cui dovranno partecipare attivamente anche se impediti ad operare per salvare la vita del paziente.
Ancora: l’art. 1, comma 9, del progetto prevede un obbligo “di struttura” di contribuire a procurare la morte del paziente (che, per quanto detto prima, può essere decisa anche da soggetti diversi dell’interessato): infatti, “ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi della legge”; quindi anche i dirigenti e i proprietari delle strutture sanitarie avranno un obbligo positivo cui non potranno opporre alcun rifiuto basato sulla coscienza.
Si tratta di omissione palesemente incostituzionale.
Non si può dimenticare che la coscienza, insieme alla ragione, è ciò che distingue gli esseri umani, come recita il preambolo alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”).
La coscienza morale è un giudizio della ragione mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto. In tutto quello che dice o fa, l’uomo ha il dovere di seguire fedelmente ciò che sa essere giusto o retto. La dignità della persona umana implica ed esige la rettitudine della coscienza morale.
Comprendiamo, allora, cosa significa obiezione di coscienza: l’uomo che ascolta la sua coscienza percepisce il dovere di astenersi da determinate azioni che gli proviene da una legge che egli, con l’uso della ragione, riconosce esistente; quando una legge dello Stato lo obbliga a compiere quella azione, egli si trova di fronte a due leggi che contengono due imperativi contrapposti.
Lo Stato gli intima: “devi fare questa azione” e lo minaccia di una sanzione se non obbedisce; la coscienza e la ragione gli intimano: “non devi fare questa azione” ed egli comprende che la “sanzione” è la perdita della sua dignità.
Quando l’uomo è davvero libero, egli obietta al dovere imposto dalla legge statale, affermando: “Non posso, non devo farlo, la mia coscienza me lo vieta!”.
Di fronte all’obiezione di coscienza si pone un’alternativa per lo Stato: permetterla, se del caso regolandola, oppure non riconoscerla, considerando una violazione della norma il rifiuto opposto dall’obiettore di eseguire l’azione prevista come obbligatoria dalla legge e, quindi, sanzionarlo.
In questi decenni – dal 1972 per il servizio militare obbligatorio al 2004 per la procreazione medicalmente assistita – il legislatore ha scelto di riconoscere e regolamentare l’obiezione di coscienza. La sentenza della Corte Costituzionale n. 467 del 1991 chiarì senza ombra di perplessità che quella scelta era costituzionalmente obbligatoria.
In primo luogo, la Corte inquadrò la tutela della coscienza individuale all’interno di quella dei diritti fondamentali dell’uomo: “A livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico.
In altri termini, poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima.” Nel passaggio successivo, la Corte enunciò l’obbligo per il legislatore di riconoscere l’obiezione di coscienza con l’utilizzo di una forma verbale – “esige” – che non permette elusioni: “Di qui deriva che – quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell’uomo, quale, ad esempio, la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 della Costituzione) o della propria fede religiosa (art. 19 della Costituzione) – la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana.” Nel passaggio finale, la Corte precisava anche il ruolo del legislatore: “Sotto tale profilo, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale, la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza).” In definitiva, il legislatore – quando stabilisce un obbligo giuridico positivo a carico di diversi soggetti di provocare la morte di uomini interrompendo o non somministrando loro terapie salvavita – non ha una piena discrezionalità nel riconoscere l’obiezione di coscienza dei soggetti obbligati: ha l’obbligo costituzionale di farlo; e ciò non solo nei confronti dei medici, ma anche nei confronti degli altri sanitari – in particolare gli infermieri, sicuramente coinvolti nelle pratiche di tipo eutanasico – nonché dei dirigenti delle strutture sanitarie.
Come ha ben precisato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, “ciò che è protetto dall’Articolo 9 della Convenzione, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, è uno dei fondamenti di una “società democratica” ai sensi della Convenzione. Si tratta, nella sua dimensione religiosa, di uno degli elementi più essenziali per l’identità dei credenti e per la loro concezione della vita, ma è anche un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici e gli indifferenti. Si tratta del pluralismo, conquistato a caro prezzo nel corso dei secoli e da cui dipende il tipo di società. (…) il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura sono le caratteristiche di una “società democratica”.
Non posso che auspicare che il Senato della Repubblica, cui ho avuto l’onore di rivolgermi, sappia rispondere a queste sollecitazioni espresse sulla base dei principi costituzionali e convenzionali.
Grazie per l’attenzione,
Giacomo Rocchi