
In ricordo di Eluana Englaro: l’ingiustizia dell’eutanasia per via giudiziaria

2019-05-20
Relazione al Convegno 18 maggio 2019 Università Lumsa – Roma
1. La lunga e complessa vicenda giudiziaria che ha condotto alla morte di Eluana Englaro a seguito dell’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione ha un’importanza epocale perché segna il passaggio da una concezione etica e giuridica che assegna primalità alla vita umana a una concezione che ne erode il primato a favore di criteri non ultimamente chiari, ma orientati in sostanza ad attribuire rilievo al c.d. ‘best interest’ del soggetto disabile, individuato tramite una ricostruzione presuntiva dello stile di vita serbato dal malato prima dell’inabilitazione.
2. Il campo giuridico – legislazione e giurisprudenza – relativo alla protezione della vita era rimasto invariato fino alla sentenza n. 21784/2007 della Corte di Cassazione e al decreto 25 giugno – 9 luglio 2008 della Corte di Appello di Milano, che, in applicazione del principio di diritto dettato dalla Corte Suprema, accoglieva il reclamo proposto dal tutore di Eluana Englaro di autorizzarlo a interrompere il trattamento di sostegno vitale a quest’ultima, praticato mediante alimentazione-idratazione con sondino naso-gastrico.
3. Il passo compiuto nel 2007/2008 non significa che in precedenza non fossero accaduti eventi giuridici volti a infirmare la solidità del quadro giuridico a favore della vita.Due aspetti appaiono di grande rilievo. Il primo riguarda il fondamento giuridico della relazione medico-paziente. Essenziale a tale relazione è il fine terapeutico e di alleviamento della sofferenza del malato. Mai la relazione può essere imperniata sulla morte del paziente. L’autodeterminazione non è il fondamento dell’attività medico-chirurgica; il suo fondamento è la tutela della salute del paziente. Il consenso del paziente all’intervento è indispensabile per evitare che iniziative invasive sulla persona – come sono quelle medico-chirurgiche – siano assunte contro la volontà della persona, vìolando la sua libertà fondamentale. Se, invece, il consenso non costituisce il limite del trattamento, ma è il suo fondamento, si rischia di trasformare il senso stesso dell’attività terapeutica. Se si riconduce, infatti, il baricentro dell’attività medica al solo consenso in ordine a una determinata prestazione, il rapporto di alleanza terapeutica svanisce. Il medico è ridotto a essere un prestatore di servizi, mero esecutore della volontà del paziente.La descrizione normativa dei trattamenti terapeutici in un’ottica di mero consenso è contraria al principio solidaristico che sta alla base dell’ordinamento democratico, perché riduce l’esercizio della medicina a un rapporto di tipo contrattualistico. Il medico dovrebbe fare ciò che il paziente richiede, anche se il trattamento fosse contrario al finalismo terapeutico o fosse manifestamente futile e sproporzionato, e, inversamente, dovrebbe astenersi dal fare ciò che è utile e proporzionato, anche se l’astensione avesse conseguenze di danno o addirittura di morte per il paziente.Il secondo aspetto riguarda la cifra giuridica della rinuncia del paziente ai trattamenti medici. Il fondamento del diritto alla rinuncia sta nell’immunità della persona dall’invasione esterna del suo corpo da parte di un qualsivoglia terzo, ivi compreso il medico, quale che sia l’intenzione di questi, anche se essa sia intesa a garantire un suo interesse (art. 13, co. 1, Cost.). E’ gravemente errato, invece, ritenere che la legittimità del rifiuto stia in un diritto a monte di portata più vasta, identificabile con un preteso, ma inesistente, diritto di essere malati, di ammalarsi o addirittura con l’assurdo diritto di morire. La ragione dell’errore sta nel fraintendimento tipico di alcuni giuristi, ispirantisi a una sorta di geometria legale, i quali rovesciano il dictum della legge e trasformano il semplice diritto negativo a non subire un certo trattamento nel diritto positivo a ottenere l’evento che il trattamento potrebbe impedire. Il diritto è una facoltà morale prevista dalla legge affinché il soggetto consegua liberamente un certo bene. Il diritto alla salute, in specie, consiste nella facoltà di richiedere e di ottenere i presidi e i trattamenti volti a realizzare questo bene fondamentale. Si tratta di un diritto positivo per la realizzazione di quel bene. Il diritto ha un risvolto negativo: io non posso essere costretto ad esercitare il diritto. Posso rinunciare a esercitarlo. Ma il diritto non può essere rovesciato nel suo contrario, cioè nel diritto ad essere ammalato, ad ammalarmi e a uccidermi. Queste sono libertà di fatto: e, come tali, non sono tutelate dall’ordinamento giuridico.
4. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza Pretty del 2002 ha proclamato con chiarezza questo principio, che il diritto alla vita non può essere trasformato nel diritto alla morte. Moltissimi giuristi, soprattutto cultori del diritto penale, hanno trasformato l’art. 32 della Costituzione in un grimaldello per rovesciare il diritto alla salute nel diritto alla morte.Si tratta di un sofisma, che suona così: se la legge mi riconosce il diritto a rifiutare i trattamenti, vuol dire che io ho il diritto di ammalarmi e di uccidere. Le cose non stanno così. Tu puoi non esercitare il tuo diritto – come risvolto negativo del diritto positivo alla salute – ma questa possibilità non si rovescia nel diritto di ammalarti o di ucciderti. L’art. 32, co. 2 è stato introdotto nella Costituzione allo scopo di vietare assolutamente di strumentalizzare la persona umana a esigenze collettive, in specie alla sterilizzazione coercitiva e alla sperimentazione medica coercitiva nell’interesse della scienza o della collettività, come era avvenuto all’epoca dello sterminio eutanasico nazionalsocialista.L’art. 32, co. 2 afferma il principio fondamentale dello Stato di diritto, secondo cui l’interesse della collettività alla salute (e alla vita) dell’individuo, interesse pur costituzionalmente protetto (art. 32, co. 1), soccombe al diritto di libertà di ciascuno. Ciò non perché la salute e la vita siano beni giuridicamente disponibili, bensì perché la loro tutela non può non affidarsi ultimamente all’azione libera e consapevole di ognuno. Come ben dice Adriano Pessina, il rifiuto dei trattamenti, sia chirurgici che farmacologici, non costituisce un implicito riconoscimento di un preteso diritto di essere ammalato e/o di uccidersi; esso invece “[…] serve per limitare l’intervento di altri sul corpo della persona: vale cioè per impedire che un atto di forza come può essere un intervento chirurgico, possa trasformarsi in un atto di violenza. Dal punto di vista morale, il dovere di non intervenire sul corpo altrui senza il suo consenso si fonda sull’idea che il corpo altrui non è violabile perché esiste un nesso inscindibile tra l’essere persona umana e l’essere persona corporea. Ogni violenza fatta sul corpo è una violenza fatta sulla persona umana” .
5. Nel periodo antecedente la sentenza della Cassazione del 2007 e il decreto della Corte di Appello di Milano del 2008 l’universo dei giuristi aveva in una certa misura aderito al sofisma interpretativo che riconduceva all’art. 32, co. 2 della Costituzione una sorta di diritto alla morte. Ciò era avvenuto grazie a un’operazione concettualmente scorretta, giuridicamente infondata e praticamente paradossale, intesa a fare della norma massimamente protettrice della vita e della salute del cittadino il baluardo dell’assunto opposto, che lì stesse la base normativa di un inesistente diritto alla morte.La vicenda giudiziaria della giovane Eluana Englaro abbonda peraltro di altri paradossi giuridici, sintomatici delle storpiature interpretative che hanno condotto alla tragica conclusione.Comincio con l’aspetto relativo alla legittimazione del tutore (il padre di Eluana) a richiedere l’autorizzazione a interrompere l’alimentazione e l’idratazione ai sensi degli artt. 357 e 424 del codice civile. Le norme assegnano a tale figura, volta a tutelare l’incapace, il compito, tra gli altri, della “cura” della persona interdetta. La richiesta di interrompere il sostegno basilare per la vita – quel sostegno di cui ciascuno di noi ha bisogno per sopravvivere – non è rivolto alla “cura” dell’interdetto, bensì alla sua morte. Come possa un atto finalizzato alla morte rientrare nel concetto di cura non è comprensibile né sul piano lessicale né su quello razionale. Il principio giuridicamente esatto venne esposto in modo piano e persuasivo dai giudici del Tribunale di Lecco nel decreto del 15-20 luglio 2002, che respingeva per la seconda volta il ricorso del tutore. Osservava il Tribunale che la nozione, condivisa dal P.M., di “cura” del soggetto incapace implica “un quid di positivo volto alla conservazione della vita del soggetto stesso e non certo, invece, alla sua soppressione”.Evidente è la contraddizione e, comunque, la contrarietà “alla logica, prima ancora che al diritto, assegnare al tutore, ovverosia a colui che è titolare di poteri-doveri di conservazione della persona interdetta, la potestà di compiere atti che implichino di necessità…la morte del soggetto tutelando”. D’altra parte – proseguivano i giudici – “il diritto alla vita costituisce il principale dei diritti dell’uomo a cui si riferisce l’art. 2 della Costituzione”. Sì che il Collegio concludeva dichiarando che la richiesta del tutore si poneva in diametrale contrasto con il principio di primario ordine costituzionale del diritto alla vita in ogni sua forma e grado. Il che non consente ad alcun soggetto la “possibilità di scelta in ordine al mantenimento in vita”.
6. La Corte di Appello di Milano Sezione delle persone dei minori e della famiglia (decreto 17 ottobre – 10 novembre 2003) sul reclamo del tutore ha iniziato il percorso di cedimento che avrebbe condotto alla decisione finale. Pur senza aver rintracciato alcuna disposizione normativa che contraddicesse l’ineccepibile interpretazione del primo giudice in ordine al perimetro dei poteri del tutore, la Corte milanese, dichiarando di attingere “come spunti di riflessione” ad alcuni provvedimenti dell’autorità giurisdizionale germanica, ha ritrovato in quell’ordinamento pronunce che avrebbero ammesso la facoltà del tutore di richiedere l’interruzione, non beninteso come decisione assunta al posto del paziente incapace, bensì come esecuzione dell’autodeterminazione previa del medesimo. Accanto a pronunce ammissive, altre pronunce dell’autorità giurisdizionale germanica erano invece attestate sulla posizione del Tribunale di Lecco, secondo cui non può essere demandata al tutore una decisione per la morte, che ha carattere strettamente personale e che incide sulla dignità della persona. I compiti del tutore, infatti, sono finalizzati alla tutela della salute e, dunque, della vita.Su queste fragili basi – una giurisprudenza germanica spaccata a metà –, la Corte ha richiamato la Raccomandazione europea n. 779 del 1976 del Consiglio di Europa sul diritto del paziente al rispetto della sua volontà circa il trattamento da applicare e al suo diritto di morire con dignità. Ha ritenuto poi che potrebbe essere conveniente allo scopo di conservare rilievo alla volontà del paziente anche in stato di incapacità, l’istituto delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Si è rammaricato del fatto che questo istituto non esistesse ancora nell’ordinamento italiano e, auspicando che “il legislatore ordinario individui e predisponga gli strumenti adeguati per l’efficace protezione della persona e il rispetto del suo diritto di autodeterminazione”, ha dichiarato di essere “perplessa sull’opportunità/legittimità” di “un’interpretazione integrativa della legge”, nonché “in ordine al possibile espletamento di attività sostanzialmente paranormativa, considerati i dilemmi giuridici, medici, filosofici, etici che si avvertono nei dibattiti della società civile e nelle relazioni dei comitati e delle commissioni investite della tematica”.Dunque, la decisione della Corte mette in primo luogo nel nulla gli articoli del codice civile che limitano i poteri del tutore alla “cura” del tutelato, precludendogli la facoltà di decretarne la morte. In secondo luogo, ricostruisce il quadro normativo in forza della giurisprudenza divisa di uno Stato estero. In terzo luogo, manifesta il suo orientamento a favore di istituti (le dichiarazioni anticipate) che consentirebbero all’incapace di far valere il suo diritto all’autodeterminazione, auspicandone la promulgazione in Italia. Infine, dichiara di non sentirsi in grado di innovare, esercitando una funzione paranormativa, il quadro normativo di riferimento.Se ne segnalano qui alcuni del decreto: l’omessa applicazione degli articoli del codice civile; la palese contraddittorietà della motivazione, che auspica per la soluzione del caso l’introduzione di un istituto (le dichiarazioni anticipate), che non esistevano nel compendio istruttorio e che, dunque, non avrebbero potuto risolverlo; infine, l’esposizione di opinioni inconferenti per la decisione e di auspici di modifiche legislative in forza di sollecitazioni ricavabili da decisioni esterne all’ordinamento italiano.
7. La Corte di Cassazione, Sezione I Civile con ordinanza 20.04.2005 n. 8291 dichiarava inammissibile il ricorso del tutore, accogliendo l’eccezione del Procuratore Generale sul rilievo che lo stesso non era stato notificato ad alcuno; inoltre il ricorso era privo dei requisiti previsti dalla legge, necessari anche nei procedimenti che si svolgono in camera di consiglio. La questione si doveva considerare definita una volta rilevata l’inammissibilità del ricorso. Senonché la Corte riapriva la questione rilevando che l’oggetto della controversia avrebbe dovuto vedere la presenza anche di un controinteressato, atteso il possibile conflitto di interessi tra l’interdetta, incapace di esprimere la propria volontà, e il suo rappresentante ex lege. Di qui la necessaria applicazione di un curatore speciale al rappresentato ai sensi dell’art. 78 c.p.c..A parte l’esattezza dei rilievi strettamente giuridici sul conflitto di interessi del tutore e sull’inesistenza in capo a lui di una rappresentanza generale degli interessi dell’interdetto con riferimento al tipo di atto richiesto, non si comprende tuttavia la ragione giuridica per cui la Cassazione abbia ritenuto di dover richiamare l’esigenza della nomina di un curatore speciale ex art. 78, quando ormai la questione era risolta in forza dell’inammissibilità del ricorso per la mancata sua notificazione al Procuratore Generale a quo.
8. Ripresentato il ricorso da parte del tutore, previa nomina di un curatore speciale ex art. 78, il Tribunale di Lecco lo dichiarava inammissibile, esprimendo con chiarezza i motivi di stretto diritto che lo determinavano alla decisione.Il Tribunale ribadiva che né il tutore né il curatore potevano domandare l’interruzione dell’alimentazione di Eluana “per difetto da parte di questi ultimi dei poteri di rappresentanza sostanziale e quindi processuale dell’interdetta con riferimento alla presente domanda”. La natura strettamente personale del tipo di atto richiesto non consentiva che lo stesso fosse richiesto da un terzo, né tutore, né curatore speciale. E ciò in forza dell’interpretazione sistematica della legge, che prevede tassativamente le ipotesi in cui il rappresentante dell’interdetto per infermità di mente può compiere atti personalissimi. Disposizioni tassative che “non avrebbero ragione di essere se la generica rappresentanza del tutore dell’infermo di mente in tutti gli atti civili comprendesse anche gli atti personalissimi”.Il Tribunale aggiungeva che la mancata previsione di una norma attribuente al tutore o al curatore il potere di richiedere atti per la morte era conforme ai princìpi costituzionali fondamentali, in particolare agli artt. 2 e 32 della Costituzione. Garantire all’incapace un trattamento, tanto più se di sostegno vitale, è “non solamente lecito, ma addirittura dovuto, espressione di quel dovere di solidarietà che l’ordinamento richiede ai consociati al fine di garantire la tutela della persona in tutte le forme in cui essa si esprime”.La pronuncia del Tribunale svela per vero il non detto implicito della pronuncia della Cassazione, che ammette che il terzo, dotato del potere tutorio e in contraddittorio con il curatore, avrebbe il potere di richiedere l’autorizzazione a compiere un atto per la morte del tutelato. Esattamente, invece, il Tribunale sottolineava che se il potere di richiedere l’interruzione manca in radice al tutore, tale potere non può scaturire dalla nomina di un procuratore speciale!
9. Sul ricorso del tutore la Corte di Appello di Milano con decreto del 16 dicembre 2006 compiva due passaggi decisivi, entrambi contrari alla legge, intesi a consentire l’interruzione dell’alimentazione/idratazione. Con il primo riconosceva al tutore, con la partecipazione del curatore, il potere di compiere l’atto personalissimo al posto di Eluana; con il secondo ammetteva le prove testimoniali al fine di provare la volontà presunta di Eluana.Le questioni sono state risolte con argomenti gravemente fallaci. Il ricorso sarebbe ammissibile, anzitutto, perché i rappresentanti legali della giovane donna “non chiedono di essere autorizzati, in tale veste, dal Giudice a interrompere l’alimentazione forzata” bensì “domandano che sia l’autorità giudiziaria a disporre l’interruzione”. Ciò è contrario alla verità, perché la domanda consisteva proprio nella richiesta dell’autorizzazione. Non è, infatti, il giudice a esprimere la volontà di distaccare il sondino, egli è soltanto il soggetto competente per rilasciare l’autorizzazione. In secondo luogo la Corte ricomprendeva erroneamente nel concetto di “cura della persona” anche il diritto di “rifiutare la cura”. Il che è contrario alla legge e all’art. 32 della Costituzione, che riconosce tale diritto soltanto al paziente e non a terze persone in sua rappresentanza.Quanto, poi, alla ricostruzione della volontà di Eluana in via presuntiva, va soltanto rilevato che nessuna norma di legge consentiva – e, a tutt’oggi, consente – di ricostruire una volontà circa la rinuncia a un diritto personalissimo – quella della vita – a una persona diversa dell’interessato.La Corte milanese, tuttavia, scrutinate le dichiarazioni testimoniali, ha infine correttamente escluso che le stesse consentissero di accogliere il ricorso; infatti, all’esito dell’istruttoria, la posizione di Eluana sarebbe assimilabile – così la Corte – a quella di qualsiasi soggetto incapace che nulla abbia detto in merito alle cure e ai trattamenti medici a cui deve essere sottoposto.
10. Il semaforo verde all’uccisione della giovane venne azionato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 21748 del 16 ottobre 2007, che accoglieva i ricorsi del tutore e del curatore. I princìpi cui il giudice di merito avrebbe dovuto adeguarsi suonano nel senso che il giudice può autorizzare il tutore che rappresenta l’incapace, nel contraddittorio con il curatore speciale, a disattivare il sondino naso-gastrico che provvede alla nutrizione e all’idratazione di un malato che giaccia da moltissimi anni “in stato vegetativo permanente” a condizione che (a) la condizione di stato vegetativo sia irreversibile alla luce di “un rigoroso apprezzamento clinico” e che (b) l’istanza del tutore sia “realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero della sua personalità, del suo stile di vita e dei suoi convincimenti, corrispondenti al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.La sentenza costituisce una lacerazione del tessuto ordinamentale di notevole rilievo. Il punto di partenza della motivazione sta nel riconoscimento del diritto del paziente a rinunciare alle cure. Ma questo diritto ha natura personalissima e può essere esercitato soltanto dal soggetto capace di esprimere un dissenso alla cura, non da un terzo al suo posto. Di ciò è consapevole la Corte quando è costretta ad ammettere che è carente “una specifica disciplina legislativa”. Ritiene però di compiere “una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali”.Sul punto cruciale dei poteri del rappresentante legale in ordine all’esercizio di un diritto personalissimo, la Corte argomenta in modo contraddittorio. Per un verso, infatti, dichiara che “il carattere personalissimo del diritto alla salute” non investe il tutore di “un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza”. Per un altro verso, però, sostiene, con espressione suggestiva ma inconcludente, che il tutore dovrebbe decidere non “al posto dell’incapace” né “per l’incapace”, bensì “con l’incapace”. Questo asserto è intrinsecamente contraddittorio, perché l’incapace – soprattutto l’incapace in stato di persistente incoscienza – non è in grado di interloquire in alcun modo con il tutore.Quindi, la decisione sarà al massimo “per l’incapace”, se non “contro l’incapace”. Il metodo suggerito è di “ricostruire la presunta volontà del paziente incosciente”, tenendo conto dei desideri espressi prima della perdita di coscienza, ovvero inferendo la volontà dalla sua personalità e dal suo stile di vita. L’asserto, ancora una volta, è contraddittorio. La focalizzazione dei desideri e dello stile di vita di una persona è cosa diversa dall’individuazione della sua volontà in relazione al compimento di un atto personalissimo che ha come conseguenza la morte. In realtà, la Corte sposta l’oggetto dello scrutinio dalla volontà presunta del disabile a quello che sarebbe il suo “best interest”. Ed è evidente che tale “best interest” scaturisce – come riconosce la stessa Corte – dal giudizio che il rappresentante darà in ordine al concetto che egli si è fatto sull’ “identità complessiva del paziente e al suo [sul] modo di concepire…l’idea stessa di dignità della persona”.La Corte, quindi, oltre a creare ex novo i parametri normativi di giudizio, ha prescritto non di ricostruire la volontà presunta del soggetto incapace, bensì di individuarne l’idea che egli si sarebbe fatto durante la sua esistenza in ordine alla dignità della vita. Se questa idea ipotetica fosse conflittuale con il permanere in vita, il rappresentante legale avrebbe il diritto di interrompere l’idratazione e l’alimentazione. Con questa interpretazione, mentre la legge e la Costituzione dicono che la decisione sulla protrazione delle cure è oggetto di un diritto personalissimo, la Cassazione proclama che il suo esercizio è trasferito al rappresentante. Tutto ciò in adesione al principio dell’autodeterminazione di un soggetto impedito assolutamente a pronunciarsi e a interloquire dialogicamente con il suo rappresentante legale.
11. La Corte di Appello di Milano, I Sezione Civile, con il decreto 25 giugno – 9 luglio, accogliendo il reclamo, ha autorizzato il rappresentante a interrompere il trattamento di sostegno vitale artificiale di Eluana Englaro. Il giudice di merito, ricostruendo il senso della vita della donna, è andato, se possibile, ancora al di là delle stesse indicazioni della Corte Suprema, lasciando chiaramente intendere quali potranno essere gli sviluppi in senso eutanasico della frattura aperta dalla Corte di Cassazione.Occorre, sia pure brevemente, svolgere alcune considerazioni critiche sul decreto in oggetto. Anzitutto, i giudici milanesi confermano che il compito loro demandato dalla Suprema Corte non consisteva nell’accertare una sorta di volontà effettuale della disabile, bensì nell’accertare se la sua visione della vita le avrebbe consentito di accettare di vivere la vita di deprivazione sensoriale che caratterizza lo stato vegetativo. Ora, tutti gli uomini e le donne si troverebbero in crisi davanti alla propria rappresentazione futura come soggetti completamente deprivati di coscienza. La visione della vita di ciascuno, soprattutto nella gioventù, è orientata al pieno dispiegamento delle proprie potenzialità. Domandarsi se la visione della vita di Eluana fosse compatibile con la visione di se stessa deprivata di coscienza è cosa manifestamente assurda.Le suggestioni indotte dalla Corte sul contrasto tra il desiderio di libertà e di realizzazione di sé che animavano la gioventù di Eluana e la condizione dello stato vegetativo sono perciò fuorvianti. Il problema non consisteva nel valorizzare lo spirito di apertura verso il mondo di Eluana, bensì di accertare se, posta di fronte all’alternativa concreta di rinunciare all’assistenza per il caso di deprivazione sensoriale, ella avrebbe dilatato la sua apertura mentale fino al punto di accettare l’assistenza, ovvero di morire. Lo scrutinio affidato al giudici di merito cela in realtà un giudizio sul ‘best interest’ critico della persona. Un ‘best interest’ ricavato, cioè, non da ciò che la persona realmente vuole per sé nel caso drammatico della caduta nella malattia, bensì dalle sue idee sulle condizioni necessarie affinché la qualità della vita sia fruibile con soddisfazione.L’idea del ‘best interest’ come criterio dirimente per le scelte di fine vita nei riguardi dei malati mentali è stata da moltissimi anni argomentata in prospettiva eutanasica da Ronald Dworkin nel suo libro Life’s Dominion. Egli si domanda, con riferimento a un malato di Alzheimer, se occorre tener conto del suo attuale ‘best interest’ come demente, ovvero del suo ‘best interest’ come persona che è divenuta demente, alla luce dell’intero corso della sua vita. Per Dworkin il ‘best interest’ di cui occorre tener conto è quello della persona sana, anche se egli, come demente, manifesta il desiderio di continuare a vivere. Ciò per rispetto alla sua autonomia, perché quando è divenuto malato non è più capace di autonomia. Se si rispettassero i suoi desideri attuali, noi violeremmo la sua autonomia nell’integrità come persona.Le conseguenze di questa tesi sono agghiaccianti. Si tratta per esempio di uccidere una donna che sta conducendo una vita serena, ma è demente e non manifesta alcun desiderio di essere uccisa. Se noi non la uccidessimo, allora violeremmo la sua autonomia. Tra gli interessi sperimentali della persona demente e gli interessi critici posseduti in antecedenza bisognerebbe privilegiare questi ultimi, uccidendo il soggetto demente perché, quando era lucido, non avrebbe desiderato vivere così.Il caso della persona demente, presentato da Dworkin, è perfettamente sovrapponibile a quello di Eluana Englaro. Chi dichiara il ‘best interest’ della persona demente o della persona in stato vegetativo? Le autorità tutorie nominate dal giudice che hanno il dovere di curare ed assistere il soggetto gravemente minorato? E in forza di quale diritto? E il ‘best interest’ critico, diverso da quello esperienziale, di milioni di uomini e di donne poveri, non adusi a distinguere tra il ‘best interest’ dell’esperienza comune e il ‘best interest’ critico, chi lo dichiara? Lo Stato, la struttura sanitaria o chi altri per loro? Il ‘best interest’ di milioni di uomini e donne, procedendo su questa strada, sarà per essere deciso in forza non dell’autodeterminazione del soggetto candidato alla morte, bensì dalla determinazione eteronoma formulata in base al criterio della qualità della vita.La seconda considerazione ricavabile dal decreto milanese ha una portata generale. Ho osservato in precedenza che la decisione in oggetto preannuncia gli sviluppi futuri della deriva eutanasica. La Corte si domanda infatti se sussistano dubbi plausibili di legittimità costituzionale del principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte. Il dubbio, ovviamente prospettato soltanto in astratto, concernerebbe – secondo i giudici di merito – il “disparitario trattamento in danno del malato incapace (rispetto a quello pienamente capace e cosciente), in violazione dell’art. 3 della Costituzione” a cagione delle condizioni limitative poste dalla Suprema Corte all’esercizio del diritto da parte del tutore. All’esito del ragionamento la Corte milanese asserisce infatti che la legittimità della richiesta del tutore volta all’interruzione del trattamento di sostegno vitale non potrebbe essere esclusa “neppure nei casi in cui sia di fatto impossibile ricostruire una volontà presunta dell’incapace orientata al rifiuto del trattamento…rispetto alla quale potrebbe in effetti apparire ingiustamente sfornito di tutela il diritto alla dignità individuale del malato incapace…”.Con ciò la Corte di Appello milanese apre uno scenario nuovo – la cui esposizione non era certamente necessitata dalla soluzione del caso dedotto in giudizio – volto a estendere la possibilità che una richiesta di rinuncia al trattamento dell’incapace sia esperita anche nel caso in cui non sia possibile ricostruire l’orientamento critico del paziente precedente alla malattia. L’esigenza di aprire questo scenario è ricollegata dai giudici al principio di uguaglianza, per non privare del diritto a morire il paziente incapace di cui non sia possibile accertare l’orientamento precedente alla caduta nella malattia.La disamina compiuta consente di comprendere per quali motivi la vicenda giudiziaria che ha riguardato Eluana Englaro costituisca una sorta di discrimine tra due concezioni del diritto: l’una, tradizionale, secondo cui il compito del diritto e di coloro che operano nel suo solco, ivi compresi i tutori e i giudici, è di tutelare la vita alla luce dei principi di beneficità, autonomia e giustizia e delle buone prassi cliniche, che, evitando ogni trattamento futile, sono dirette ad assisterlo fino alla morte naturale in modo conforme alla dignità della persona; l’altra concezione si è affacciata anche in Italia e sta rischiando di estendersi a seguito della curvatura eutanasica della legge sul consenso informato del dicembre 2017 e dell’ordinanza della Corte Costituzionale dell’ottobre-novembre 2018. Per tale seconda concezione la vita è oggetto di un diritto che deve essere bilanciato con l’autodeterminazione del paziente e con il suo ‘best interest’, allorché questi non è in grado di pronunciarsi sulla protrazione delle cure, pure utili e proporzionate, che la comunità medica gli sta praticando per evitarne o alleviarne la sofferenza. La relativizzazione del diritto alla vita costituisce una minaccia per la pace e la tranquillità dell’ordine sociale.
prof. Mauro Ronco
2. Il campo giuridico – legislazione e giurisprudenza – relativo alla protezione della vita era rimasto invariato fino alla sentenza n. 21784/2007 della Corte di Cassazione e al decreto 25 giugno – 9 luglio 2008 della Corte di Appello di Milano, che, in applicazione del principio di diritto dettato dalla Corte Suprema, accoglieva il reclamo proposto dal tutore di Eluana Englaro di autorizzarlo a interrompere il trattamento di sostegno vitale a quest’ultima, praticato mediante alimentazione-idratazione con sondino naso-gastrico.
3. Il passo compiuto nel 2007/2008 non significa che in precedenza non fossero accaduti eventi giuridici volti a infirmare la solidità del quadro giuridico a favore della vita.Due aspetti appaiono di grande rilievo. Il primo riguarda il fondamento giuridico della relazione medico-paziente. Essenziale a tale relazione è il fine terapeutico e di alleviamento della sofferenza del malato. Mai la relazione può essere imperniata sulla morte del paziente. L’autodeterminazione non è il fondamento dell’attività medico-chirurgica; il suo fondamento è la tutela della salute del paziente. Il consenso del paziente all’intervento è indispensabile per evitare che iniziative invasive sulla persona – come sono quelle medico-chirurgiche – siano assunte contro la volontà della persona, vìolando la sua libertà fondamentale. Se, invece, il consenso non costituisce il limite del trattamento, ma è il suo fondamento, si rischia di trasformare il senso stesso dell’attività terapeutica. Se si riconduce, infatti, il baricentro dell’attività medica al solo consenso in ordine a una determinata prestazione, il rapporto di alleanza terapeutica svanisce. Il medico è ridotto a essere un prestatore di servizi, mero esecutore della volontà del paziente.La descrizione normativa dei trattamenti terapeutici in un’ottica di mero consenso è contraria al principio solidaristico che sta alla base dell’ordinamento democratico, perché riduce l’esercizio della medicina a un rapporto di tipo contrattualistico. Il medico dovrebbe fare ciò che il paziente richiede, anche se il trattamento fosse contrario al finalismo terapeutico o fosse manifestamente futile e sproporzionato, e, inversamente, dovrebbe astenersi dal fare ciò che è utile e proporzionato, anche se l’astensione avesse conseguenze di danno o addirittura di morte per il paziente.Il secondo aspetto riguarda la cifra giuridica della rinuncia del paziente ai trattamenti medici. Il fondamento del diritto alla rinuncia sta nell’immunità della persona dall’invasione esterna del suo corpo da parte di un qualsivoglia terzo, ivi compreso il medico, quale che sia l’intenzione di questi, anche se essa sia intesa a garantire un suo interesse (art. 13, co. 1, Cost.). E’ gravemente errato, invece, ritenere che la legittimità del rifiuto stia in un diritto a monte di portata più vasta, identificabile con un preteso, ma inesistente, diritto di essere malati, di ammalarsi o addirittura con l’assurdo diritto di morire. La ragione dell’errore sta nel fraintendimento tipico di alcuni giuristi, ispirantisi a una sorta di geometria legale, i quali rovesciano il dictum della legge e trasformano il semplice diritto negativo a non subire un certo trattamento nel diritto positivo a ottenere l’evento che il trattamento potrebbe impedire. Il diritto è una facoltà morale prevista dalla legge affinché il soggetto consegua liberamente un certo bene. Il diritto alla salute, in specie, consiste nella facoltà di richiedere e di ottenere i presidi e i trattamenti volti a realizzare questo bene fondamentale. Si tratta di un diritto positivo per la realizzazione di quel bene. Il diritto ha un risvolto negativo: io non posso essere costretto ad esercitare il diritto. Posso rinunciare a esercitarlo. Ma il diritto non può essere rovesciato nel suo contrario, cioè nel diritto ad essere ammalato, ad ammalarmi e a uccidermi. Queste sono libertà di fatto: e, come tali, non sono tutelate dall’ordinamento giuridico.
4. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza Pretty del 2002 ha proclamato con chiarezza questo principio, che il diritto alla vita non può essere trasformato nel diritto alla morte. Moltissimi giuristi, soprattutto cultori del diritto penale, hanno trasformato l’art. 32 della Costituzione in un grimaldello per rovesciare il diritto alla salute nel diritto alla morte.Si tratta di un sofisma, che suona così: se la legge mi riconosce il diritto a rifiutare i trattamenti, vuol dire che io ho il diritto di ammalarmi e di uccidere. Le cose non stanno così. Tu puoi non esercitare il tuo diritto – come risvolto negativo del diritto positivo alla salute – ma questa possibilità non si rovescia nel diritto di ammalarti o di ucciderti. L’art. 32, co. 2 è stato introdotto nella Costituzione allo scopo di vietare assolutamente di strumentalizzare la persona umana a esigenze collettive, in specie alla sterilizzazione coercitiva e alla sperimentazione medica coercitiva nell’interesse della scienza o della collettività, come era avvenuto all’epoca dello sterminio eutanasico nazionalsocialista.L’art. 32, co. 2 afferma il principio fondamentale dello Stato di diritto, secondo cui l’interesse della collettività alla salute (e alla vita) dell’individuo, interesse pur costituzionalmente protetto (art. 32, co. 1), soccombe al diritto di libertà di ciascuno. Ciò non perché la salute e la vita siano beni giuridicamente disponibili, bensì perché la loro tutela non può non affidarsi ultimamente all’azione libera e consapevole di ognuno. Come ben dice Adriano Pessina, il rifiuto dei trattamenti, sia chirurgici che farmacologici, non costituisce un implicito riconoscimento di un preteso diritto di essere ammalato e/o di uccidersi; esso invece “[…] serve per limitare l’intervento di altri sul corpo della persona: vale cioè per impedire che un atto di forza come può essere un intervento chirurgico, possa trasformarsi in un atto di violenza. Dal punto di vista morale, il dovere di non intervenire sul corpo altrui senza il suo consenso si fonda sull’idea che il corpo altrui non è violabile perché esiste un nesso inscindibile tra l’essere persona umana e l’essere persona corporea. Ogni violenza fatta sul corpo è una violenza fatta sulla persona umana” .
5. Nel periodo antecedente la sentenza della Cassazione del 2007 e il decreto della Corte di Appello di Milano del 2008 l’universo dei giuristi aveva in una certa misura aderito al sofisma interpretativo che riconduceva all’art. 32, co. 2 della Costituzione una sorta di diritto alla morte. Ciò era avvenuto grazie a un’operazione concettualmente scorretta, giuridicamente infondata e praticamente paradossale, intesa a fare della norma massimamente protettrice della vita e della salute del cittadino il baluardo dell’assunto opposto, che lì stesse la base normativa di un inesistente diritto alla morte.La vicenda giudiziaria della giovane Eluana Englaro abbonda peraltro di altri paradossi giuridici, sintomatici delle storpiature interpretative che hanno condotto alla tragica conclusione.Comincio con l’aspetto relativo alla legittimazione del tutore (il padre di Eluana) a richiedere l’autorizzazione a interrompere l’alimentazione e l’idratazione ai sensi degli artt. 357 e 424 del codice civile. Le norme assegnano a tale figura, volta a tutelare l’incapace, il compito, tra gli altri, della “cura” della persona interdetta. La richiesta di interrompere il sostegno basilare per la vita – quel sostegno di cui ciascuno di noi ha bisogno per sopravvivere – non è rivolto alla “cura” dell’interdetto, bensì alla sua morte. Come possa un atto finalizzato alla morte rientrare nel concetto di cura non è comprensibile né sul piano lessicale né su quello razionale. Il principio giuridicamente esatto venne esposto in modo piano e persuasivo dai giudici del Tribunale di Lecco nel decreto del 15-20 luglio 2002, che respingeva per la seconda volta il ricorso del tutore. Osservava il Tribunale che la nozione, condivisa dal P.M., di “cura” del soggetto incapace implica “un quid di positivo volto alla conservazione della vita del soggetto stesso e non certo, invece, alla sua soppressione”.Evidente è la contraddizione e, comunque, la contrarietà “alla logica, prima ancora che al diritto, assegnare al tutore, ovverosia a colui che è titolare di poteri-doveri di conservazione della persona interdetta, la potestà di compiere atti che implichino di necessità…la morte del soggetto tutelando”. D’altra parte – proseguivano i giudici – “il diritto alla vita costituisce il principale dei diritti dell’uomo a cui si riferisce l’art. 2 della Costituzione”. Sì che il Collegio concludeva dichiarando che la richiesta del tutore si poneva in diametrale contrasto con il principio di primario ordine costituzionale del diritto alla vita in ogni sua forma e grado. Il che non consente ad alcun soggetto la “possibilità di scelta in ordine al mantenimento in vita”.
6. La Corte di Appello di Milano Sezione delle persone dei minori e della famiglia (decreto 17 ottobre – 10 novembre 2003) sul reclamo del tutore ha iniziato il percorso di cedimento che avrebbe condotto alla decisione finale. Pur senza aver rintracciato alcuna disposizione normativa che contraddicesse l’ineccepibile interpretazione del primo giudice in ordine al perimetro dei poteri del tutore, la Corte milanese, dichiarando di attingere “come spunti di riflessione” ad alcuni provvedimenti dell’autorità giurisdizionale germanica, ha ritrovato in quell’ordinamento pronunce che avrebbero ammesso la facoltà del tutore di richiedere l’interruzione, non beninteso come decisione assunta al posto del paziente incapace, bensì come esecuzione dell’autodeterminazione previa del medesimo. Accanto a pronunce ammissive, altre pronunce dell’autorità giurisdizionale germanica erano invece attestate sulla posizione del Tribunale di Lecco, secondo cui non può essere demandata al tutore una decisione per la morte, che ha carattere strettamente personale e che incide sulla dignità della persona. I compiti del tutore, infatti, sono finalizzati alla tutela della salute e, dunque, della vita.Su queste fragili basi – una giurisprudenza germanica spaccata a metà –, la Corte ha richiamato la Raccomandazione europea n. 779 del 1976 del Consiglio di Europa sul diritto del paziente al rispetto della sua volontà circa il trattamento da applicare e al suo diritto di morire con dignità. Ha ritenuto poi che potrebbe essere conveniente allo scopo di conservare rilievo alla volontà del paziente anche in stato di incapacità, l’istituto delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Si è rammaricato del fatto che questo istituto non esistesse ancora nell’ordinamento italiano e, auspicando che “il legislatore ordinario individui e predisponga gli strumenti adeguati per l’efficace protezione della persona e il rispetto del suo diritto di autodeterminazione”, ha dichiarato di essere “perplessa sull’opportunità/legittimità” di “un’interpretazione integrativa della legge”, nonché “in ordine al possibile espletamento di attività sostanzialmente paranormativa, considerati i dilemmi giuridici, medici, filosofici, etici che si avvertono nei dibattiti della società civile e nelle relazioni dei comitati e delle commissioni investite della tematica”.Dunque, la decisione della Corte mette in primo luogo nel nulla gli articoli del codice civile che limitano i poteri del tutore alla “cura” del tutelato, precludendogli la facoltà di decretarne la morte. In secondo luogo, ricostruisce il quadro normativo in forza della giurisprudenza divisa di uno Stato estero. In terzo luogo, manifesta il suo orientamento a favore di istituti (le dichiarazioni anticipate) che consentirebbero all’incapace di far valere il suo diritto all’autodeterminazione, auspicandone la promulgazione in Italia. Infine, dichiara di non sentirsi in grado di innovare, esercitando una funzione paranormativa, il quadro normativo di riferimento.Se ne segnalano qui alcuni del decreto: l’omessa applicazione degli articoli del codice civile; la palese contraddittorietà della motivazione, che auspica per la soluzione del caso l’introduzione di un istituto (le dichiarazioni anticipate), che non esistevano nel compendio istruttorio e che, dunque, non avrebbero potuto risolverlo; infine, l’esposizione di opinioni inconferenti per la decisione e di auspici di modifiche legislative in forza di sollecitazioni ricavabili da decisioni esterne all’ordinamento italiano.
7. La Corte di Cassazione, Sezione I Civile con ordinanza 20.04.2005 n. 8291 dichiarava inammissibile il ricorso del tutore, accogliendo l’eccezione del Procuratore Generale sul rilievo che lo stesso non era stato notificato ad alcuno; inoltre il ricorso era privo dei requisiti previsti dalla legge, necessari anche nei procedimenti che si svolgono in camera di consiglio. La questione si doveva considerare definita una volta rilevata l’inammissibilità del ricorso. Senonché la Corte riapriva la questione rilevando che l’oggetto della controversia avrebbe dovuto vedere la presenza anche di un controinteressato, atteso il possibile conflitto di interessi tra l’interdetta, incapace di esprimere la propria volontà, e il suo rappresentante ex lege. Di qui la necessaria applicazione di un curatore speciale al rappresentato ai sensi dell’art. 78 c.p.c..A parte l’esattezza dei rilievi strettamente giuridici sul conflitto di interessi del tutore e sull’inesistenza in capo a lui di una rappresentanza generale degli interessi dell’interdetto con riferimento al tipo di atto richiesto, non si comprende tuttavia la ragione giuridica per cui la Cassazione abbia ritenuto di dover richiamare l’esigenza della nomina di un curatore speciale ex art. 78, quando ormai la questione era risolta in forza dell’inammissibilità del ricorso per la mancata sua notificazione al Procuratore Generale a quo.
8. Ripresentato il ricorso da parte del tutore, previa nomina di un curatore speciale ex art. 78, il Tribunale di Lecco lo dichiarava inammissibile, esprimendo con chiarezza i motivi di stretto diritto che lo determinavano alla decisione.Il Tribunale ribadiva che né il tutore né il curatore potevano domandare l’interruzione dell’alimentazione di Eluana “per difetto da parte di questi ultimi dei poteri di rappresentanza sostanziale e quindi processuale dell’interdetta con riferimento alla presente domanda”. La natura strettamente personale del tipo di atto richiesto non consentiva che lo stesso fosse richiesto da un terzo, né tutore, né curatore speciale. E ciò in forza dell’interpretazione sistematica della legge, che prevede tassativamente le ipotesi in cui il rappresentante dell’interdetto per infermità di mente può compiere atti personalissimi. Disposizioni tassative che “non avrebbero ragione di essere se la generica rappresentanza del tutore dell’infermo di mente in tutti gli atti civili comprendesse anche gli atti personalissimi”.Il Tribunale aggiungeva che la mancata previsione di una norma attribuente al tutore o al curatore il potere di richiedere atti per la morte era conforme ai princìpi costituzionali fondamentali, in particolare agli artt. 2 e 32 della Costituzione. Garantire all’incapace un trattamento, tanto più se di sostegno vitale, è “non solamente lecito, ma addirittura dovuto, espressione di quel dovere di solidarietà che l’ordinamento richiede ai consociati al fine di garantire la tutela della persona in tutte le forme in cui essa si esprime”.La pronuncia del Tribunale svela per vero il non detto implicito della pronuncia della Cassazione, che ammette che il terzo, dotato del potere tutorio e in contraddittorio con il curatore, avrebbe il potere di richiedere l’autorizzazione a compiere un atto per la morte del tutelato. Esattamente, invece, il Tribunale sottolineava che se il potere di richiedere l’interruzione manca in radice al tutore, tale potere non può scaturire dalla nomina di un procuratore speciale!
9. Sul ricorso del tutore la Corte di Appello di Milano con decreto del 16 dicembre 2006 compiva due passaggi decisivi, entrambi contrari alla legge, intesi a consentire l’interruzione dell’alimentazione/idratazione. Con il primo riconosceva al tutore, con la partecipazione del curatore, il potere di compiere l’atto personalissimo al posto di Eluana; con il secondo ammetteva le prove testimoniali al fine di provare la volontà presunta di Eluana.Le questioni sono state risolte con argomenti gravemente fallaci. Il ricorso sarebbe ammissibile, anzitutto, perché i rappresentanti legali della giovane donna “non chiedono di essere autorizzati, in tale veste, dal Giudice a interrompere l’alimentazione forzata” bensì “domandano che sia l’autorità giudiziaria a disporre l’interruzione”. Ciò è contrario alla verità, perché la domanda consisteva proprio nella richiesta dell’autorizzazione. Non è, infatti, il giudice a esprimere la volontà di distaccare il sondino, egli è soltanto il soggetto competente per rilasciare l’autorizzazione. In secondo luogo la Corte ricomprendeva erroneamente nel concetto di “cura della persona” anche il diritto di “rifiutare la cura”. Il che è contrario alla legge e all’art. 32 della Costituzione, che riconosce tale diritto soltanto al paziente e non a terze persone in sua rappresentanza.Quanto, poi, alla ricostruzione della volontà di Eluana in via presuntiva, va soltanto rilevato che nessuna norma di legge consentiva – e, a tutt’oggi, consente – di ricostruire una volontà circa la rinuncia a un diritto personalissimo – quella della vita – a una persona diversa dell’interessato.La Corte milanese, tuttavia, scrutinate le dichiarazioni testimoniali, ha infine correttamente escluso che le stesse consentissero di accogliere il ricorso; infatti, all’esito dell’istruttoria, la posizione di Eluana sarebbe assimilabile – così la Corte – a quella di qualsiasi soggetto incapace che nulla abbia detto in merito alle cure e ai trattamenti medici a cui deve essere sottoposto.
10. Il semaforo verde all’uccisione della giovane venne azionato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 21748 del 16 ottobre 2007, che accoglieva i ricorsi del tutore e del curatore. I princìpi cui il giudice di merito avrebbe dovuto adeguarsi suonano nel senso che il giudice può autorizzare il tutore che rappresenta l’incapace, nel contraddittorio con il curatore speciale, a disattivare il sondino naso-gastrico che provvede alla nutrizione e all’idratazione di un malato che giaccia da moltissimi anni “in stato vegetativo permanente” a condizione che (a) la condizione di stato vegetativo sia irreversibile alla luce di “un rigoroso apprezzamento clinico” e che (b) l’istanza del tutore sia “realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero della sua personalità, del suo stile di vita e dei suoi convincimenti, corrispondenti al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.La sentenza costituisce una lacerazione del tessuto ordinamentale di notevole rilievo. Il punto di partenza della motivazione sta nel riconoscimento del diritto del paziente a rinunciare alle cure. Ma questo diritto ha natura personalissima e può essere esercitato soltanto dal soggetto capace di esprimere un dissenso alla cura, non da un terzo al suo posto. Di ciò è consapevole la Corte quando è costretta ad ammettere che è carente “una specifica disciplina legislativa”. Ritiene però di compiere “una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali”.Sul punto cruciale dei poteri del rappresentante legale in ordine all’esercizio di un diritto personalissimo, la Corte argomenta in modo contraddittorio. Per un verso, infatti, dichiara che “il carattere personalissimo del diritto alla salute” non investe il tutore di “un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza”. Per un altro verso, però, sostiene, con espressione suggestiva ma inconcludente, che il tutore dovrebbe decidere non “al posto dell’incapace” né “per l’incapace”, bensì “con l’incapace”. Questo asserto è intrinsecamente contraddittorio, perché l’incapace – soprattutto l’incapace in stato di persistente incoscienza – non è in grado di interloquire in alcun modo con il tutore.Quindi, la decisione sarà al massimo “per l’incapace”, se non “contro l’incapace”. Il metodo suggerito è di “ricostruire la presunta volontà del paziente incosciente”, tenendo conto dei desideri espressi prima della perdita di coscienza, ovvero inferendo la volontà dalla sua personalità e dal suo stile di vita. L’asserto, ancora una volta, è contraddittorio. La focalizzazione dei desideri e dello stile di vita di una persona è cosa diversa dall’individuazione della sua volontà in relazione al compimento di un atto personalissimo che ha come conseguenza la morte. In realtà, la Corte sposta l’oggetto dello scrutinio dalla volontà presunta del disabile a quello che sarebbe il suo “best interest”. Ed è evidente che tale “best interest” scaturisce – come riconosce la stessa Corte – dal giudizio che il rappresentante darà in ordine al concetto che egli si è fatto sull’ “identità complessiva del paziente e al suo [sul] modo di concepire…l’idea stessa di dignità della persona”.La Corte, quindi, oltre a creare ex novo i parametri normativi di giudizio, ha prescritto non di ricostruire la volontà presunta del soggetto incapace, bensì di individuarne l’idea che egli si sarebbe fatto durante la sua esistenza in ordine alla dignità della vita. Se questa idea ipotetica fosse conflittuale con il permanere in vita, il rappresentante legale avrebbe il diritto di interrompere l’idratazione e l’alimentazione. Con questa interpretazione, mentre la legge e la Costituzione dicono che la decisione sulla protrazione delle cure è oggetto di un diritto personalissimo, la Cassazione proclama che il suo esercizio è trasferito al rappresentante. Tutto ciò in adesione al principio dell’autodeterminazione di un soggetto impedito assolutamente a pronunciarsi e a interloquire dialogicamente con il suo rappresentante legale.
11. La Corte di Appello di Milano, I Sezione Civile, con il decreto 25 giugno – 9 luglio, accogliendo il reclamo, ha autorizzato il rappresentante a interrompere il trattamento di sostegno vitale artificiale di Eluana Englaro. Il giudice di merito, ricostruendo il senso della vita della donna, è andato, se possibile, ancora al di là delle stesse indicazioni della Corte Suprema, lasciando chiaramente intendere quali potranno essere gli sviluppi in senso eutanasico della frattura aperta dalla Corte di Cassazione.Occorre, sia pure brevemente, svolgere alcune considerazioni critiche sul decreto in oggetto. Anzitutto, i giudici milanesi confermano che il compito loro demandato dalla Suprema Corte non consisteva nell’accertare una sorta di volontà effettuale della disabile, bensì nell’accertare se la sua visione della vita le avrebbe consentito di accettare di vivere la vita di deprivazione sensoriale che caratterizza lo stato vegetativo. Ora, tutti gli uomini e le donne si troverebbero in crisi davanti alla propria rappresentazione futura come soggetti completamente deprivati di coscienza. La visione della vita di ciascuno, soprattutto nella gioventù, è orientata al pieno dispiegamento delle proprie potenzialità. Domandarsi se la visione della vita di Eluana fosse compatibile con la visione di se stessa deprivata di coscienza è cosa manifestamente assurda.Le suggestioni indotte dalla Corte sul contrasto tra il desiderio di libertà e di realizzazione di sé che animavano la gioventù di Eluana e la condizione dello stato vegetativo sono perciò fuorvianti. Il problema non consisteva nel valorizzare lo spirito di apertura verso il mondo di Eluana, bensì di accertare se, posta di fronte all’alternativa concreta di rinunciare all’assistenza per il caso di deprivazione sensoriale, ella avrebbe dilatato la sua apertura mentale fino al punto di accettare l’assistenza, ovvero di morire. Lo scrutinio affidato al giudici di merito cela in realtà un giudizio sul ‘best interest’ critico della persona. Un ‘best interest’ ricavato, cioè, non da ciò che la persona realmente vuole per sé nel caso drammatico della caduta nella malattia, bensì dalle sue idee sulle condizioni necessarie affinché la qualità della vita sia fruibile con soddisfazione.L’idea del ‘best interest’ come criterio dirimente per le scelte di fine vita nei riguardi dei malati mentali è stata da moltissimi anni argomentata in prospettiva eutanasica da Ronald Dworkin nel suo libro Life’s Dominion. Egli si domanda, con riferimento a un malato di Alzheimer, se occorre tener conto del suo attuale ‘best interest’ come demente, ovvero del suo ‘best interest’ come persona che è divenuta demente, alla luce dell’intero corso della sua vita. Per Dworkin il ‘best interest’ di cui occorre tener conto è quello della persona sana, anche se egli, come demente, manifesta il desiderio di continuare a vivere. Ciò per rispetto alla sua autonomia, perché quando è divenuto malato non è più capace di autonomia. Se si rispettassero i suoi desideri attuali, noi violeremmo la sua autonomia nell’integrità come persona.Le conseguenze di questa tesi sono agghiaccianti. Si tratta per esempio di uccidere una donna che sta conducendo una vita serena, ma è demente e non manifesta alcun desiderio di essere uccisa. Se noi non la uccidessimo, allora violeremmo la sua autonomia. Tra gli interessi sperimentali della persona demente e gli interessi critici posseduti in antecedenza bisognerebbe privilegiare questi ultimi, uccidendo il soggetto demente perché, quando era lucido, non avrebbe desiderato vivere così.Il caso della persona demente, presentato da Dworkin, è perfettamente sovrapponibile a quello di Eluana Englaro. Chi dichiara il ‘best interest’ della persona demente o della persona in stato vegetativo? Le autorità tutorie nominate dal giudice che hanno il dovere di curare ed assistere il soggetto gravemente minorato? E in forza di quale diritto? E il ‘best interest’ critico, diverso da quello esperienziale, di milioni di uomini e di donne poveri, non adusi a distinguere tra il ‘best interest’ dell’esperienza comune e il ‘best interest’ critico, chi lo dichiara? Lo Stato, la struttura sanitaria o chi altri per loro? Il ‘best interest’ di milioni di uomini e donne, procedendo su questa strada, sarà per essere deciso in forza non dell’autodeterminazione del soggetto candidato alla morte, bensì dalla determinazione eteronoma formulata in base al criterio della qualità della vita.La seconda considerazione ricavabile dal decreto milanese ha una portata generale. Ho osservato in precedenza che la decisione in oggetto preannuncia gli sviluppi futuri della deriva eutanasica. La Corte si domanda infatti se sussistano dubbi plausibili di legittimità costituzionale del principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte. Il dubbio, ovviamente prospettato soltanto in astratto, concernerebbe – secondo i giudici di merito – il “disparitario trattamento in danno del malato incapace (rispetto a quello pienamente capace e cosciente), in violazione dell’art. 3 della Costituzione” a cagione delle condizioni limitative poste dalla Suprema Corte all’esercizio del diritto da parte del tutore. All’esito del ragionamento la Corte milanese asserisce infatti che la legittimità della richiesta del tutore volta all’interruzione del trattamento di sostegno vitale non potrebbe essere esclusa “neppure nei casi in cui sia di fatto impossibile ricostruire una volontà presunta dell’incapace orientata al rifiuto del trattamento…rispetto alla quale potrebbe in effetti apparire ingiustamente sfornito di tutela il diritto alla dignità individuale del malato incapace…”.Con ciò la Corte di Appello milanese apre uno scenario nuovo – la cui esposizione non era certamente necessitata dalla soluzione del caso dedotto in giudizio – volto a estendere la possibilità che una richiesta di rinuncia al trattamento dell’incapace sia esperita anche nel caso in cui non sia possibile ricostruire l’orientamento critico del paziente precedente alla malattia. L’esigenza di aprire questo scenario è ricollegata dai giudici al principio di uguaglianza, per non privare del diritto a morire il paziente incapace di cui non sia possibile accertare l’orientamento precedente alla caduta nella malattia.La disamina compiuta consente di comprendere per quali motivi la vicenda giudiziaria che ha riguardato Eluana Englaro costituisca una sorta di discrimine tra due concezioni del diritto: l’una, tradizionale, secondo cui il compito del diritto e di coloro che operano nel suo solco, ivi compresi i tutori e i giudici, è di tutelare la vita alla luce dei principi di beneficità, autonomia e giustizia e delle buone prassi cliniche, che, evitando ogni trattamento futile, sono dirette ad assisterlo fino alla morte naturale in modo conforme alla dignità della persona; l’altra concezione si è affacciata anche in Italia e sta rischiando di estendersi a seguito della curvatura eutanasica della legge sul consenso informato del dicembre 2017 e dell’ordinanza della Corte Costituzionale dell’ottobre-novembre 2018. Per tale seconda concezione la vita è oggetto di un diritto che deve essere bilanciato con l’autodeterminazione del paziente e con il suo ‘best interest’, allorché questi non è in grado di pronunciarsi sulla protrazione delle cure, pure utili e proporzionate, che la comunità medica gli sta praticando per evitarne o alleviarne la sofferenza. La relativizzazione del diritto alla vita costituisce una minaccia per la pace e la tranquillità dell’ordine sociale.
prof. Mauro Ronco