
Eugenetica e legge 194
Eugenetica e legge 194
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La recente notizia ( marzo 2007) di un bambino abortito alla 22a settimana per una malformazione dell’esofago (poi rivelatasi inesistente), e sopravvissuto per sei giorni nell’unità di terapia intensiva neonatale, ha avuto una ampia risonanza sulla stampa.
Anche in passato la trasmissione televisiva ” i figli dell’aborto “, andata in onda su Canale 5 il 12 marzo 1999, suscitò allora molta emozione e numerosi commenti sulla stampa. Un bambino non ancora nato era sopravvissuto ad una interruzione legale di gravidanza alla 24ª settimana di gestazione ed era poi stato dichiarato adottabile.
Questi fatti hanno messo in crisi le idee di alcuni settori dell’opinione pubblica sulla cosiddetta “capacità di sopravvivenza autonoma del feto” e hanno evidenziato la disinformazione che regna, anche in ambienti colti, sulla vera natura della vita umana prenatale e sulle conoscenze che la biologia scientifica ha ormai da tempo acquisito in questo campo.
Già la stessa espressione “capacità di sopravvivenza autonoma del feto”, è inesatta e ingannevole. Essa induce a pensare che, nel seno materno, il feto non abbia una vita propria ma partecipi alla vita stessa della madre, come se fosse un organo del suo corpo e che, solo a partire da circa 26-28 settimane di gravidanza, il nascituro acquisti, in qualche modo misterioso, una vita propria e “autonoma”, di valore superiore alla precedente, che gli permetterebbe di sopravvivere fuori del corpo della madre.
Queste idee, che risalgono ad un’epoca prescientifica in cui le informazioni sulla vita prenatale erano rudimentali, sono completamente false, come la biologia scientifica ha dimostrato da almeno un secolo.
In realtà si deve parlare di capacità del feto di “sopravvivere al di fuori dell’utero”, senza alcun riferimento ad una presunta autonomia o meno della sua vita.
Infatti nessun animale è autonomo in senso assoluto ma, per la sua sopravvivenza, dipende sempre dell’ambiente in cui vive. È invece essenziale, per la sopravvivenza di qualunque animale, che esso sia dotato degli organi necessari per vivere nell’ambiente al quale è destinato: nel caso del feto l’utero materno, nel caso del neonato e dell’adulto, l’ambiente fuori dell’utero.
Per comprendere come stanno realmente le cose, bisogna fare una breve premessa di biologia generale.
Come una fiamma per ardere ha bisogno di carburante e di ossigeno così qualunque animale, uomo compreso, per mantenersi in vita deve assumere dall’ambiente sostanze nutritive e ossigeno. Le sostanze nutritive sono costituite da alcuni gruppi di composti chimici (carboidrati, grassi e proteine) che forniscono la materia prima per la costruzione e il continuo rinnovamento del corpo. Inoltre queste sostanze sono anche ricche di energia chimica e vengono perciò utilizzate, in misura più o meno grande, anche come veri e propri “carburanti”. Queste sostanze, infatti, combinandosi chimicamente con l’ ossigeno, cioè subendo una vera e propria ” combustione “, sia pur lenta e controllata, producono calore ed altre forme di energia necessarie alle funzioni indispensabili alla sopravvivenza (per es. circolazione del sangue, respirazione, digestione, ecc.. ), e all’adempimento di altre funzioni tipiche degli animali ( per es. deambulazione, nuoto, volo ecc..).
La combinazione di questi ” carburanti ” con l’ossigeno, cioè la loro “combustione”, libera gran parte della loro energia chimica e, di conseguenza, da essi si formano composti poveri di energia, ( principalmente anidride carbonica, acqua, urea, ed acido urico) che non sono più utilizzabili e debbono perciò essere eliminati continuamente del corpo dell’animale.
Un essere umano adulto o un neonato compiono queste funzioni fondamentali prendendo l’ossigeno dall’aria per mezzo dei polmoni, assumendo sostanze nutritive ( carboidrati, grassi, proteine ), acqua e sali dai cibi per mezzo del tubo digerente, eliminando l’anidride carbonica ( che e un gas ) nell’aria attraverso i polmoni ed espellendo, per mezzo dei reni, sotto forma di una soluzione acquosa ( l’urina) l’urea, l’acido urico e gli altri prodotti della “combustione” .
Invece l’ embrione od il feto di un mammifero (uomo compreso) compiono le stesse funzioni fondamentali per mezzo di un unico organo, la placenta, che li rende capaci di utilizzare il sangue della madre (che circola nelle pareti dell’utero) come sorgente di ossigeno e di sostanze nutritive e come via di eliminazione dell’ anidride carbonica, dell’urea e degli altri prodotti del metabolismo(1).
La placenta appartiene al corpo del feto, e ne è anzi l’organo più voluminoso. Nella specie umana la placenta ha la forma di un disco aderente alla parete della cavità interna dell’utero, ed è collegata al resto del corpo dell’embrione o del feto mediante il cordone ombelicale. In esso decorrono due arterie ed una vena le quali assicurano che il sangue del feto, pompato dal suo cuore, circoli continuamente e in grande quantità anche attraverso la placenta.
Il sangue del feto, che giunge alla placenta attraverso le due arterie ombelicali, è povero di ossigeno e carico di anidride carbonica, di urea e di altri prodotti del metabolismo che devono essere eliminati. Nella placenta il sangue fetale viene distribuito dalle successive ramificazioni delle arterie ombelicali, in un gran numero di sottili vasi sanguigni (i vasi capillari), situati all’interno di strutture simili a finissime radici, i ” villi ” della placenta. Di qui, dopo aver percorso i capillari, il sangue fetale rifluisce in piccole vene che, all’interno della placenta, confluiscono progressivamente in vene di calibro sempre maggiore ed infine sboccano nella vena ombelicale. Attraverso questo vaso il sangue abbandona la placenta e ritorna al corpo del feto ricco di ossigeno e di sostanze nutritive e depurato dall’anidride carbonica, dall’urea e dagli altri prodotti del metabolismo.
Questa funzione di ” scambio ” di sostanze chimiche compiute dalla placenta avviene attraverso i villi placentari che, in numero elevatissimo, ricoprono la superficie della placenta aderente alla parete dell’utero, formando una struttura simile alla radice di una pianta acquatica, immersa nel sangue materno.
In seguito alla gravidanza, infatti, la rete dei vasi sanguigni della parete dell’utero si modifica in modo da permettere al sangue materno di uscire, per un certo tratto, al di fuori dei vasi sanguigni e di scorrere negli interstizi fra i villi placentari che, come le radici di una pianta, penetrano nella parete della cavità dell’utero dove è contenuto il feto. Il sangue del feto circolando all’interno dei vasi sanguigni capillari contenuti nei villi della placenta, scorre a minima distanza dal sangue materno contenuto negli interstizi fra i villi, senza però mai mescolarsi con esso, perché separato dalla doppia parete dei villi placentari e dei capillari in essi contenuti. Attraverso queste due sottilissime pareti, (complessivamente alcuni millesimi di millimetro), molto estese per il gran numero dei villi, avvengono rapidi scambi di sostanze chimiche fra il sangue del feto e quello della madre. Il sangue fetale riceve dal sangue materno l’ossigeno e le sostanze nutritive che la madre ha assunto con i suoi polmoni e con il suo apparato digerente e contemporaneamente cede al sangue della madre l’anidride carbonica, l’urea e gli altri prodotti del metabolismo, che la madre poi provvederà ad eliminare con i suoi polmoni e i suoi reni.
La gravidanza consiste dunque, non solo nello sviluppo dell’embrione o del feto all’interno dell’utero materno, ma nel fatto essi si riforniscono di ossigeno e di sostanze nutritive, ed eliminano l’anidride carbonica e gli altri prodotti del metabolismo attraverso il corpo della madre grazie al collegamento realizzato dalla placenta.
La gravidanza, è un modo di sviluppo esclusivo dell’embrione e del feto dei mammiferi ed è molto vantaggioso perché garantisce loro un apporto abbondante di nutrimento e di ossigeno ed una eliminazione molto efficiente dell’anidride carbonica e degli altri prodotti del metabolismo. Inoltre la placenta, permettendo la vita e lo sviluppo dell’embrione e del feto all’ interno del corpo materno, offre loro un ambiente di vita a temperatura ottimale e costante, protetto dai germi patogeni, dai parassiti e dai predatori e, inoltre, libera i genitori dalla necessità della cova.
Il grande successo biologico dei mammiferi, uomo compreso, rispetto a tutti gli altri vertebrati terrestri è in buona parte dovuto proprio al fatto che la placenta garantisce all’embrione e al feto condizioni di sviluppo biologicamente privilegiate.
Dopo questa premessa di biologia generale, diventano chiari due punti fondamentali:
1. il significato della nascita
2. il significato della sopravvivenza autonoma del feto fuori dell’utero.
La nascita è un evento carico di grande contenuto emotivo, ma in realtà non è affatto l’inizio della vita umana (come di ogni altro mammifero), ma solo un brusco cambiamento dell’ambiente di vita di un essere umano che già esiste, vive e si sviluppa fin dal concepimento.
La nascita può essere paragonata al varo di una nave. Essa viene costruita fuori dell’acqua finché la chiglia è completa e quindi da nave e in grado di galleggiare; solo allora la nave viene immessa nell’acqua che sarà il suo ambiente definitivo, anche se la sua costruzione non è ancora completata. Allo stesso modo un essere umano, come qualunque mammifero, viene partorito e immesso nel suo ambiente definitivo quando i suoi polmoni, il suo tubo digerente e il suo apparato urinario sono sufficientemente sviluppati per adempiere, fuori dell’utero materno, alle funzioni fondamentali della respirazione, della nutrizione e della eliminazione dei prodotti del metabolismo.
Il feto ha “capacità di sopravvivenza fuori dell’utero” (e non di sopravvivenza autonoma, come erroneamente si dice) quando i suoi polmoni, i suoi reni e il suo apparato digerente sono abbastanza sviluppati per sostituire le funzioni della placenta nell’assunzione di ossigeno e di sostanze nutritive, e nell’eliminazione dell’anidride carbonica, dell’urea e degli altri prodotti del metabolismo. Per la sopravvivenza del neonato è soprattutto importante la funzione dei polmoni. Se essi non sono in grado di sostituire subito ed adeguatamente la placenta nell’assunzione di ossigeno e nelle eliminazione dell’anidride carbonica, il bambino muore per insufficienza respiratoria. La ragione del progressiva riduzione della età di gravidanza, in cui è possibile la sopravvivenza del feto fuori dell’utero, è dovuta principalmente al fatto che i medici hanno trovato il modo di far funzionare sufficientemente i polmoni del neonato molto prematuro anche quando questi, da soli, non sono ancora in grado di farlo.
Da queste conoscenze scientifiche certe e mai messe in discussione, risulta chiaro che è una vera assurdità attribuire al feto un maggiore un minor grado di dignità umana in base alla sua capacità di sopravvivere o meno fuori dell’utero, come invece stabilisce la legge 194 in base all’articolo 7.
Anzitutto perché è evidente che la dignità umana non può dipendere dal modo con cui un essere umano si rifornisce di ossigeno e di sostanze nutritive ed elimina l’anidride carbonica e gli altri prodotti del metabolismo.
In secondo luogo perché la capacità di sopravvivenza al di fuori dell’utero dipende dal grado di assistenza medica disponibile, cioè dalla capacità dei medici di sostituire la funzione della placenta per tutto il tempo necessario, soprattutto per quanto riguarda l’assunzione di ossigeno e la eliminazione dell’ anidride carbonica. Cento anni fa nessun feto sopravviveva se veniva alla luce prima delle 30 settimane di gravidanza ( sette mesi compiuti ); oggi, nei reparti di neonatologia dei nostri ospedali, sopravvive il 70% dei neonati partoriti fra la 25ª e la 28ª settimana, il 10% di quelli partoriti fra la 25° e la 23a settimana ed, eccezionalmente, qualche neonato venuto la luce alla 22ª settimana.
Quando i medici disporranno della placenta e dell’utero artificiali (teoricamente possibili e attualmente già in fase di studio e di sperimentazione sugli animali ), si potrà ottenere, senza danno, la sopravvivenza e l’ulteriore sviluppo di feti di età gestazionale molto minore. e soprattutto si potranno evitare le gravi lesioni cerebrali conseguenti ad asfissia neonatale dovuta a parti molto prematuri e causa frequente di permanenti minorazioni motorie e psichiche.
Tenuto conto di questi dati scientifici, le prese di posizione del ministro della Sanità Livia Turco e del prof. Veronesi, sul fatto accaduto a Firenze, appaiono chiaramente irragionevoli, ma coerenti con la completa irrazionalità e antiscientificità della legge 194/78.
Il prof. Veronesi propone di permettere l’aborto solo prima della 22° settimana di gravidanza, cioè in un’età gestazionale in cui i medici, attualmente, non riescono mai a far sopravvivere il feto. Il ministro Turco invece afferma che “vanno definiti protocolli, anche per sollevare dalle responsabilità medici e genitori”. Si pensa, in pratica, di autorizzare i medici, eventualmente con il preventivo consenso scritto della madre, a non applicare, al feto abortito e nato vivo, i mezzi di terapia intensiva neonatale normalmente usati sui neonati molto prematuri. La preoccupazione del ministro e dello scienziato è solo di natura “pratica” e mira a garantire che il feto, abortito legalmente, muoia sempre e che, in futuro, non si verifichi più lo “spiacevole incidente” di un feto abortito che, contro le previsioni, si ostini a sopravvivere, creando problemi ai medici ed ai genitori.
Questo modo di pensare dimostra una totale perdita di rispetto della dignità umana del nascituro e inoltre evidenzia la natura esclusivamente ideologica della legge 194/78, perché comporta un atteggiamento irrazionale e oscurantista completamente ingiustificato dalle moderne conoscenze scientifiche.