
Deontologia medica – Comitato Verità e Vita
Deontologia medica
Deontologia medica e «Procreazione medicalmente assistita»
La Civiltà Cattolica 2004 II 425-438
Il 10 marzo 2004 è entrata in vigore la Legge 40 del 19.2.2004 sulla Procreazione Medicalmente Assistita, definitivamente approvata dal Parlamento il 10 febbraio 2004 dopo un iter triennale molto burrascoso1. Non è una «legge cattolica». Il dominante pluralismo etico, tuttavia, aveva portato necessariamente i cattolici a operare a livello politico, secondo il criterio indicato da Giovanni Paolo II nell’Enciclica Evangelium Vitae2, al fine di “limitare i danni” di una legge ingiusta e di “diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica”. “Così facendo – proseguiva il S. Padre – non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; ma piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui”. In tal modo, si era riusciti a ottenere una legge che dovrebbe impedire alcuni gravi mali che si oppongono al bene comune della società; legge però, come afferma esplicitamente A.R.Luño, noto docente di teologia morale, ancora “ingiusta, anche se meno ingiusta di altre”3.
Ampi, puntuali e documentati commenti si possono trovare in autorevoli riviste4. Con questa nota si intende soltanto portare l’attenzione su alcuni aspetti intrinseci e caratteristici della cosiddetta Tecnologia di Riproduzione Assistita (Assisted Reproductive Tecnology, ART) al fine, da una parte, di evidenziarne e comprenderne le finalità e i risultati e, dall’altra, rilevare le perplessità che essa solleva. Perplessità che gettano pesanti ombre sulla legge stessa.
Le finalità
Le finalità della Tecnologia di Riproduzione Assistita erano state espresse molto chiaramente da Robert G. Edwards. Pioniere, egli aveva lavorato per ben 5 anni a produrre embrioni umani nel suo Laboratorio di Fisiologia all’Università di Cambridge; soltanto nel 19715 aveva ottenuto le prime due blastocisti umane in vitro e, dopo altri sette anni di tentativi e fallimenti6
con il ginecologo Patrick Steptoe, aveva raggiunto il traguardo del 25 luglio 19787: la nascita della prima bambina concepita in provetta. In pochi anni la nuova tecnologia si era diffusa in molte nazioni. Alla Terza Conferenza Mondiale sulla Fertilizzazione in vitro, svoltasi a Helsinki nel 1984, egli poteva affermare: “Il campo della fertilizzazione in vitro sta avanzando rapidamente. Siamo ancora dominati dalla necessità di migliorare il tasso dei successi, troppo basso in molte cliniche.[…] Ovviamente il metodo è qui per restare, almeno per il trattamento della infertilità, e non c’è dubbio che potrà essere presto applicato per trattare altri problemi quale quello delle malattie genetiche”8.
In realtà, la domanda essenziale a cui intende, per ora, rispondere questa tecnica è la richiesta di un «figlio», e di un figlio «sano». Nella maggior parte dei casi questa domanda viene da parte di coppie sterili o infertili a causa di difetti anatomo-funzionali, o perché al di là dei limiti dell’età fertile. In un’altra parte di casi, il cui numero va sempre più aumentando, essa viene da parte di coppie non sterili ma che, essendo a rischio di avere figli affetti da gravi difetti genetici, desiderano evitarlo e avere la certezza di un figlio sano. In un’altra piccola parte – almeno finora – la domanda viene da coppie che vivono in particolari situazioni delicate da un punto di vista psicologico o umano, quali forti tendenze omosessuali o scelta di libera convivenza. Sono tutte situazioni che meritano particolare attenzione e, soprattutto, comprensione, portando con sé nella maggioranza delle volte una profonda sofferenza; anche se, talvolta, possano apparire come espressione di tensioni egoistiche.
La risposta oggi
Scienza e medicina hanno cercato di dare, fino ad oggi, una risposta a questa domanda del «figlio», attraverso le tecniche sempre più elaborate ed avanzate della Fecondazione in vitro (FIV). E’ una risposta che esige un esame di quanto è avvenuto e si è ottenuto nei trascorsi 25 anni; esame imposto dalla deontologia stessa, che deve stare alla base dell’attività sia medica sia scientifica.
La risposta relativa al figlio desiderato è offerta da statistiche ufficiali derivate da ampie casistiche. Al 1984, a sei anni dal primo evento, dai dati riportati al Congresso di Helsinki9 emergeva che solo il 6-7% delle donne, nelle quali era stato fatto il trasferimento in utero degli embrioni prodotti in vitro, avevano visto soddisfatto il loro desiderio di avere un figlio, accompagnata da una perdita totale del 95,5% degli embrioni trasferiti. Un rapporto della Voluntary Licencing Authority10- l’Autorità preposta dal Governo inglese al controllo di questa nuova attività – pubblicato nel 1988 come editoriale nella nota rivista Nature, riferendo lo scarso successo ottenuto, sottolineava: “Che nel 1986 […] 4.670 pazienti […] abbiano sopportato un totale di più di 7.000 cicli […] e da tutto questo sforzo ci siano stati soltanto 605 nati vivi” – cioè soltanto il 12,9% delle richiedenti avesse avuto il «figlio in braccio» – “è una prova che l’IVF resta una potente sorgente di grandi speranze deluse […]uno stato di cose in cui migliaia di donne ogni anno giocano di fortuna con una nuova tecnica, e sono crudelmente deluse”. Nello stesso 1988, il Presidente di un Comitato di studio della American Fertility Society11, terminando un rapporto sull’analisi dei risultati di 41 «cliniche della fertilità», dai quali emergeva che soltanto 311 donne su 2864 – cioè il 10,8% – aveva ottenuto il figlio desiderato, commentava: “L’informazione qui contenuta è critica per un approfondimento da parte della comunità medica e utile per il pubblico, perché comprenda meglio il problema del meno che ottimo esito che persiste in queste tecnologie”. Statistiche più recenti indicano soltanto lievi progressi. Nel 1990 negli Stati Uniti12 le donne col «bambino in braccio» raggiungevano il 17%. In Inghilterra, R. M. L. Winston e A. H. Handyside13, attivi in questo campo fin dai primissimi anni, riferendosi ai risultati del 1992 i quali indicavano che solo il 12,5% delle donne erano riuscite ad avere il «bambino in braccio» scrivevano: “La fertilizzazione umana in vitro è sorprendentemente un insuccesso”. Un lieve miglioramento ancora era rilevabile da statistiche pubblicate nel 1999 sulla rivista Fertility and Sterility14 relative ai dati delle cliniche statunitensi nel 1996: su 49.584 cicli, le donne col «bambino in braccio» avevano raggiunto il 22,6%. Le ultime statistiche per l’Europa relative al 199915 – a cui hanno partecipato anche 44 cliniche italiane – registrano, su 232.443 cicli iniziati, il 27.0% di gravidanze cliniche da IVF e 26,8% da ICSI e approssimativamente il 21% di donne col «bambino in braccio»: media europea, quest’ultima, che scenderebbe per l’Italia al 17%, il 25% delle quali con gravidanze bi-, tri-, e anche tetra-gemellari.
Da questi dati appare evidente la bassa efficienza di tutte le tecnologie finora introdotte nel campo della medicina per una «riproduzione assistita». Bassa efficienza, che era da attendere sulla base delle conoscenze della biologia dei gameti e del processo della fecondazione, quale conseguenza della manipolazione di cellule tanto delicate ed esigenti. Le prove di ciò vennero ben presto, quando gli embrioni umani concepiti in vitro furono fatti oggetto di continua ricerca16. Si potè, infatti, stabilire che già il 40-50% degli oociti ottenuti con processi di super-ovulazione hanno cariotipo – cioè l’informazione genetica allo stadio cromosomico – alterato, e che circa il 37% degli zigoti e il 21% degli embrioni pre-impianto hanno delle gravi anomalie cromosomiche. Ma soprattutto si sta mettendo sempre più in evidenza che viene a mancare quel «colloquio crociato»17, o processo di segnalazione a rete, tra madre e embrione che avviene durante il percorso di questo nella tuba uterina e porta alla produzione da ambedue le parti di proteine che sono necessarie per lo sviluppo regolare dell’embrione fino all’impianto. Tutto ciò spiega perché l’intervento deve essere ripetuto da 5 a 6 volte affinchè, in media, una donna possa avere, attraverso la FIVET, la probabilità del 50% di ottenere il figlio desiderato, e da 13 a 15 volte per raggiungere la probabilità del 95%; e perchè l’esigenza di ricorrere più volte a queste tecniche, altamente stressanti, può scatenare un tendenziale rigetto da parte della donna stessa e della coppia, accompagnate spesso da notevoli crisi depressive18.
E’ da notare, inoltre, che queste tecnologie creano seri problemi anche per il piccolo gruppo di donne in cui è iniziata la gravidanza e per i nati. Vari rapporti19 comprendenti i risultati: uno di 55 Centri da tutto il mondo, un secondo di 14 centri australiani e 1 neozelandese, e un terzo dell’ 80% delle FIVET eseguite in Francia dal 1986 al 1990, rilevavano tra le gravidanze clinicamente accertate: dal 18% al 25% di aborti spontanea e 5% di gravidanze ectopiche; circa il 27% di gravidanze multiple con tutte le complicanze che ne seguivano, tra cui la «riduzione fetale»; il 29,3% di parti pre-termine e il 36% di nati con basso peso. Di più, come si esprimeva il rapporto australiano, c’era evidenza di un aumento preoccupante di morbidità e mortalità neonatale, con tassi significativamente superiori a quelli della popolazione generale. Questi dati sono confermatida molte analisi più recenti. Si ricorda soltanto la rigorosa indagine pubblicata nel 2002 relativa a un campione di 304 bambini, nati in Finlandia tra il 1990-1995, confrontato con un corretto campione di 509 bambini della popolazione generale20. Essa aveva dimostrato nel gruppo dei nati in seguito a IVF, rispetto a quello di controllo, un’incidenza: di nascite pretermine 5,6 volte maggiore; di nati con peso molto basso 6,2 volte maggiore; di nati con basso peso 9,8 volte maggiore; di morbilità neonatale 2,4 volte maggiore, con prevalenza di malformazioni cardiache; e di ospedalizzazione 3,2 volte maggiore: frequenze tutte significativamente più alte che nel campione controllo.
Tutti questi dati, che esprimono i risultati finora raggiunti mediante le tecniche di produzione di embrioni in vitro con il fine di dare un «figlio» a chi lo richiede, conducono a una conclusione e a una riflessione. La conclusione è che la medicina sta operando ancora in una fase sperimentale con danni notevoli per una grande maggioranza delle persone che vi sono coinvolte. Ne segue la riflessione che l’assistenza alla riproduzione umana attraverso la produzione di embrioni umani in vitro è sfuggita al controllo di una medicina responsabile, proseguendo – forse senza rendersene conto e con il desiderio di aiutare almeno qualcuno – su una direttrice in netto contrasto con una corretta deontologia medica, la cui fondamentale e profondamente umana norma ippocratica è «primum, non nocere». Norma che è stata totalmente elusa da una legge la quale, pur necessaria per imporre una certa regola in una società dominata dal pluralismo etico, lascia purtroppo ampi spazi a comportamenti contro l’«Uomo» e la «Famiglia».
Due recenti chiari e autorevoli richiami a questo aspetto della Tecnologia di Riproduzione Assistita ne confermano la preoccupante e grave responsabilità. Il primo è un documentato articolo dal titolo «ART into Science», scritto da 12 ricercatori del Institue for Science Law and Technology (ISLAT) del politecnico di Chicago e pubblicato nella ben nota rivista scientifica Science nel luglio 199821.
Dopo una serie di motivati rilievi su inaccettabili comportamenti osservati in 250 cliniche della fertilità negli Stati Uniti, essi avvertivano: “Le cliniche dovrebbero, come minimo, essere obbligate dalla legge federale a manifestare i rischi, i benefici e gli specifici procedimenti delle tecniche che saranno impiegate […]i rischi associati con i farmaci utilizzati […], i rischi di gravidanze multiple, e i potenziali problemi medici e psicologici per i figli”. E concludevano, richiamandone lo scopo fondamentale: “Le tecnologie della riproduzione assistita implicano la creazione di figli e la costruzione di famiglie, un valore sociale fondamentale”. Profonda e toccante è anche la conclusione di un recentissimo scritto di due pionieri, R.M.L. Winston e K. Hardy22, che ancora operano in questo campo a Londra, apparso con il titolo “Are we ignoring potential dangers of in vitro fertilization and related treatments?” in «Fertility», un Supplemento a Nature Cell Biology e Nature Medicine nell’ottobre del 2002, tutto dedicato a questo nuovo campo della medicina: “Non si dovrebbe – così essi – permettere che la disperazione dei pazienti, l’arroganza medica e le pressioni commerciali siano gli aspetti chiave determinanti in questa produzione di esseri umani. Portare un bambino al mondo è la più seria responsabilità. Non possiamo ignorare le nubi che si stanno addensando sopra queste terapie”. Sono proprio queste nubi che fanno emergere serie perplessità sul valore umano di questa nuova Tecnologia della Riproduzione Assistita.
La più seria perplessità è rappresentata da una di queste nubi, oscura e pesante, che sembra non si voglia vedere: è l’elevata produzione di embrioni e l’alta frequenza di quelli destinati a morte certa. Qualsiasi tecnica di fecondazione in vitro, anche dove sono posti dei limiti ristretti al numero degli embrioni da trasferire, implica la morte coscientemente voluta di molti embrioni umani – «figli» anch’essi – a fronte di «un figlio desiderato». E’ un dato di fatto incontrovertibile. Si consideri la situazione ammessa dalla legge, che limita a tre la produzione degli embrioni, e tutti da trasferire nella donna richiedente. Siano 100 le donne in cui si trasferiscono. Sulla base delle statistiche attuali, 80 di esse non avranno il figlio desiderato; quindi i 240 embrioni prodotti per loro vanno perduti; le altre 20 inizieranno la gravidanza e in circa 18 di esse si svilupperà uno solo degli embrioni, con la perdita quindi di altri 36 embrioni. In totale, quindi, su 300 embrioni prodotti 276 (92%) sono stati destinati alla morte; e ciò con chiara coscienza, almeno da parte del personale operante. Ma c’è ben di peggio. Nella speranza di ottenere migliori risultati si è introdotta la prassi della Diagnosi Genetica Preimpianto (PGD) che utilizza particolari tecniche, le quali permettono di rilevare anche in una sola cellula alterazioni di cromosomi o geni. Da cinque o più embrioni preparati per una data coppia e hanno raggiunto lo stadio di almeno 8 cellule si prelevano – mediante biopsia – una o due cellule, si esaminano e, se si evidenzia qualche anomalia, gli embrioni da cui sono state prelevate si eliminano o si destinano alla ricerca. L’elevata entità di questa reale «selezione eugenica» è indicata dai risultati di un numero ormai notevole di ricerche. Sono impressionanti i dati rilevati dall’esame di alcune delle più informative23: il numero di embrioni prodotti in 276 cicli, e sottoposti a biopsia, era stato di 1347 – approssimativamente 5 per ciclo; all’esame: 761 (56,5%) di essi erano risultati anormali per la presenza di gravi aberrazioni cromosomiche e furono eliminati; 583 (43,3%) erano risultati apparentemente normali e trasferiti in utero; soltanto 39 di questi giunse alla nascita. (2,9% rispetto al totale 1347 ; 6,7% rispetto ai 583 ritenuti sani e trasferiti in utero). E’ chiaro e ben definito il piano e lo scopo del processo della Diagnosi Genetica Preimpianto: elevata produzione di soggetti umani allo stato embrionale (1347), pur con seri rischi (sindrome da iperovulazione) per la donna, nella speranza di trovarne alcuni – apparentemente almeno – buoni o non gravemente alterati da selezionare e trasferire in utero per il proseguimento dello sviluppo; ed eliminazione di quanti risultano anormali (761). E’, in realtà, una gravissima aberrazione, inconcepibile in una corretta deontologia medica. Chi si difendesse affermando che in quello stadio non c’è un ben determinato soggetto umano, incorrerebbe in un falso scientifico e antropologico: se fosse stato lui ad essere soppresso nella sua fase embrionale, a iniziare dalla fusione dei due gameti – un reale aborto – gli sarebbe stata tolta proprio a quel momento la sua vita. Chi si difendesse affermando – come è avvenuto per il Comitato Warnock e il Comitato Donaldson – che ha più valore dell’embrione ciò che si pensa di poter ottenere, mediante il suo uso, per il benessere di altri, si assumerebbe la responsabilità di un grave atto di ingiustizia: la ragione stessa indica che non si può fare ciò che è «male» per raggiungere un «bene» probabile o anche certo. Chi si difendesse sostenendo che, piuttosto di un aborto al quarto o quinto mese psicologicamente troppo pesante, è preferibile la soppressione del soggetto prima dell’impianto, forse meno traumatica, cadrebbe in un errore di valutazione, di stabilire cioè la gravità del delitto secondo il tempo dello sviluppo di un ben determinato soggetto umano, che invece è sempre quello stesso soggetto fin dal momento della fusione dei due gameti. Di fatto, in ogni caso, si uccide sempre un soggetto umano innocente. Situazione reale in netto contrasto con una sana e corretta deontologia medica.
A questo punto ha portato l’introduzione e lo sviluppo di una tecnologia, pensata forse in buona fede per andare incontro al desiderio di un figlio, ma sfociata in una involuzione di morte.
Situazioni e prospettive ormai da tempo in atto, descritte in tutta la loro cruda realtà da J. Testart e B. Sèle24 i quali, con evidente preoccupazione, in un articolo pubblicato nel 1995 sulla rivista Human Reproduction con il titolo: “Towards an efficient medical eugenics : is the desirable always the feasible?”, scrivevano: “Ciò che sta avvenendo è un vera rivoluzione dell’etica che sorpassa le frontiere di ogni nazione” e con senso di responsabilità concludevano: “Al di là dell’esecuzione tecnica, dell’interesse individuale e di un ingenuo desiderio, i problemi sono più complessi di quanto siamo portati a credere. Noi dovremmo avvicinarci a questi problemi con uno sforzo cosciente e umiltà determinata a sostenere la dimensione etica della vita umana”. Sono affermazioni del padre tecnico della prima bambina concepita in vitro in Francia, che si dichiara ateo. E’, ritengo, la sua «ragione» che lo ha portato a questa affermazione e a ritirarsi dal campo delle tecnologie riproduttive.
Di fronte alla situazione reale dei risultati, qui ricordati, delle nuove tecnologie riproduttive, decantate come un grande progresso della scienza per andare incontro alla domanda di un figlio e, di più, di un figlio sano, un corretto esame da un punto di vista esclusivamente deontologico, che dovrebbe essere sempre alla base dell’onesto operare medico, porta alla seguente evidente conclusione. Tutto quanto sta accadendo in questo campo implica: da un lato, la eliminazione coscientemente voluta di un elevatissimo numero di embrioni, «soggetti umani» anch’essi e «figli», da parte soprattutto di chi offre ma anche di chi chiede, nella speranza di poterne rispettivamente offrire od ottenere almeno uno e possibilmente sano; e, dall’altro, seri danni fisici, psicologici ed economici per il 75-80% circa delle donne che non riusciranno ad avere il «bambino in braccio», oltre i non piccoli problemi di quante lo avranno. Tutto ciò è in netto contrasto con il principio «non nuocere», che deve essere alla base di tutta l’attività medica. E viene spontaneo domandarsi come questa disumana preoccupante situazione, descritta nella sua evidente realtà, possa accordarsi con l’affermazione dell’articolo 1° della legge, nel quale si afferma che essa “assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”.
Un pensiero di J. Habermas25, noto filosofo della scuola di Francoforte, in una sua recente piccola opera dal titolo «Il futuro della natura umana: i rischi di una genetica liberale», mette in evidenza il contrasto tra legge e realtà e la sua giustificazione. Alcune espressioni della prefazione circoscrivono il tema: ”Da anni la discussione sulla ricerca e sull’ingegneria genetica continua a girare inutilmente intorno al problema dello status morale della vita umana prepersonale. Perciò io assumo la prospettiva di un presente immaginario, proiettato nel futuro, a partire dal quale le pratiche oggi in discussione potrebbero retrospettivamente apparirci come lo scivolamento in una genetica liberale, vale a dire in una genetica regolata dalla legge della domanda e dell’offerta”. E più avanti nella sua analisi precisa: “Supponiamo che l’uso sperimentale degli embrioni generalizzi una prassi per cui la tutela della vita umana prepersonale venga considerata come secondaria rispetto ad altri possibili fini (incluso l’auspicabile sviluppo di nobili «beni collettivi», per esempio nuovi metodi di cura). La diffusa accettazione di questa prassi renderebbe meno sensibile la nostra visione della natura umana e aprirebbe le porte a una genetica liberale. In ciò possiamo già ora vedere quello che in futuro ci apparirà come un fait accompli del passato, cui i fautori della genetica liberale faranno appello come un Rubicone da noi già effettivamente oltrepassato”. E’ la situazione di oggi: nella prospettiva e nella volontà scientifico-tecnologica, i diritti del neoconcepito sono diritti deboli, aperti, perciò, a qualsiasi abuso. La deontologia medica è in grave scacco.
La risposta del prossimo futuro
Determinare le cause della sterilità è l’esigenza fondamentale in vista di una vera terapia, secondo le esigenze di una corretta deontologia medica. La via appare ancora lunga, ma la meta raggiungibile. Oltre ai progressi della chirurgia ricostruttiva delle tube nei casi di infertilità tubarica26, un apporto considerevole sta provenendo dalla genetica in seguito, soprattutto, alle grandi conquiste fatte nell’attuazione del Progetto Genoma Umano27. Ed era da attendere. In realtà, un semplice ricordo dello sviluppo dell’apparato genitale sia maschile sia femminile, di cui le gonadi sono le strutture essenziali in vista della riproduzione, suggerisce che la loro struttura e le rispettive funzioni sono sotto il rigoroso controllo di un notevolissimo numero di «geni», i quali operano secondo una ben precisa legge inscritta nel piano-programma disegnato e cifrato nel genoma – o informazione genetica – presente nello zigote e trasmesso in ogni cellula del nostro organismo attraverso i cromosomi. Si ritiene oggi che, nella specie umana, il numero complessivo dei geni sia 30- 45.00028, e di una buona parte si conosce già la localizzazione nei diversi cromosomi, e la specifica funzione che essi svolgono29. Purtroppo, questa informazione genetica può subire delle alterazioni, a causa di errori che sopravvengono sia nei cromosomi sia nei geni; alterazioni che portano, come conseguenza, alla comparsa di anomalie – spesso assai gravi – dello sviluppo e a serie patologie, tra le quali la sterilità e la infertilità. In merito a queste ultime, è da sottolineare: 1) che il 20-30% circa dei casi di aspermia e oligospermia è dovuto ad alterazioni cromosomiche, tra le quali vanno ricordate in particolare le traslocazioni reciproche bilanciat e nell’11% delle quali, nei punti di traslocazione, sono coinvolti 4 di 15 geni della serie TET (Testis- Expressed-Transcript) che si esprimono esclusivamente o preferibilmente nel testicolo30; e 2) che un’altra notevole percentuale è dovuta ad alterazioni geniche che avvengono sia nel cromosoma Y, tra le quali in particolare quella del gene DAZ (Delited in AZoospermia) – presente nel 12,5% degli azoospermici – la cui “grave delezione de novo è tra le cause più comuni di gravi difetti spermatogenici”31, sia in altri geni presenti in altri cromosomi e attivi in particolare nelle cellule del Sertoli e di Leydig e negli spermatociti e spermatidi. In un recente studio32 di 43 soggetti affetti da azoospermia non ostruttiva, è stato dimostrato che in 39 (90,6%) di essi era mutato l’uno o l’altro di tre geni; precisamente non erano espressi: in 5 il gene DAZ; in 13 il gene PGK2, normalmente trascritto nei tardi spermatociti; e in 22 il gene PRM2 normalmente trascritto negli spermatidi. Più di recente altri geni interessati nell’infertilità maschile, in seguito a mutazioni, sono stati trovati anche nel cromosoma X33.
Un’analoga situazione si riscontra nella sterilità e nella infertilità della donna: la sterilità prevalente nel caso di aberrazioni cromosomiche, quale l’assenza di un cromosoma X, o situazioni citogenetiche a mosaico in cui domina la linea con monosomia X; la infertilità prevalente nel caso in cui sono implicate alterazioni geniche che provocano disturbi nel complesso lavoro di strutturazione e funzionamento dell’apparato riproduttivo femminile. Un primo campo in cui queste ricerche stanno portando un po’ di luce è quello della menopausa precoce (Premature Ovarian Failure – POF) che, nella situazione sociale di oggi, può rappresentare una delle cause capace di incidere sensibilmente sulla frequenza della infertilità femminile. D. Schlesinger, ricercatore in questo settore, nota che “il 2% delle donne o non giungono al menarca o subiscono una menopausa precoce intorno ai 30 anni.[…] La formazione dei follicoli inizia normalmente, ma la velocità della loro atresia durante lo sviluppo è troppo elevata. Conseguentemente alla nascita i follicoli o non ci sono o sono troppo pochi per sostenere un completo periodo riproduttivo”34. Anzi, da ricerche da lui guidate e ancora in corso su famiglie dove la menopausa precoce è ereditaria, è emersa la conclusione che in parecchie di esse, in seguito alla traslocazione tra un cromosoma 1 e un cromosoma 3 [t(1:3)] è avvenuta la delezione di un gene presente nel cromosoma 3 – che si sta ora sequenziando – il quale turberebbe lo sviluppo e la stabilità del follicolo ovarico. Diversi altri geni richiesti per il normale sviluppo degli oociti, sono già stati individuati su altri cromosomi. Tra questi sono almeno da ricordare il gene ODG1 (Ovarian Dysgenesis 1) nel cromosoma 2, il quale codifica per il recettore dell’ormone follicolo stimolante (FSH) e di cui si conoscono diverse mutazioni; e il gene ovarico TAF11105 (Transcription Factor 11 105) – analizzato a fondo nel topo ma sicuramente presente anche nella specie umana35 – che è essenziale per un corretto sviluppo e funzione dell’ovaio, mediando la trascrizione di altri geni richiesti per un’ appropriata follicologenesi, e il cui difetto porta a un errore che interessa soprattutto le cellule della granulosa.
Il lavoro su questa linea sta proseguendo. Giustamente D. Schlesinger, che ha iniziato nelle sue ricerche – per ora condotte sul topo – l’impiego di microchips che portano 15.000 geni, sottolinea:
“La via per un approccio genomico all’analisi della menopausa precoce sarebbe quello di trovare i geni e la rete regolatrice implicati nello sviluppo dell’ovaio e dei follicoli e vedere – se, per esempio, i geni specificamente coinvolti sono sul cromosoma X – come e quando si esprimono e come la loro interruzione influisce sullo sviluppo ovarico”36. In realtà, vari studi hanno già messo in evidenza che ci sono almeno tre regioni nel cromosoma X interessate nella produzione degli oociti, e che delezioni in ciascuna di queste possono provocare menopausa precoce o anche amenorrea primaria. E’, ad esempio, il caso del gene BMP15 (Bone Morphogenetic Protein 15), localizzato nel cromosoma X, che si esprime negli oociti ed è essenziale per la fertilità37.
Appare dunque evidente che, di fronte alla insoddisfacente e ingannevole risposta data oggi, sotto le forti pressioni di una cultura deviante, da parte della scienza e della medicina alla richiesta di un «figlio», si sta già aprendo una nuova via più promettente e soprattutto rispettosa dei valori umani e della dignità di chi intende donare la vita, e della dignità e diritti di chi la riceve. Si tratta solo di percorrerla con la chiaroveggenza di una scienza responsabile, aperta alla verità dell’«Uomo», indirizzando tutte le energie umane e le necessarie risorse economiche per lo sviluppo di nuove tecnologie, già possibili, atte ad offrire alla medicina vie terapeutiche degne di una medicina umana, che intende rispettare la norma fondamentale della deontologia medica «non nuocere». E’ la tensione e la scommessa della «gene-terapia». Tensione e scommessa che sono espresse da un pioniere del campo, Theodore Friedman, al termine del capitolo introduttivo al volume The Development of Humann Gene Therapy38: “I trascorsi 25 anni – così egli – hanno visto la quasi universale accettazione del concetto di gene-terapia come una forza centrale della medicina. Pochi, se pur qualcuno c’è, possono dubitare che molte malattie umane saranno trattate attaccando il bersaglio genetico o modificado l’espressione del gene nell’organismo malato.[…] La gene-terapia è un definitivo concetto della medicina. Il resto della rivoluzione sta ora nel duro lavoro dell’attuazione.[…]. Tutto indica chiaramente che una gene-terapia clinicamente efficiente diventerà una realtà. Questa verrà, e pensiamo che verrà presto”.
Note
1 M. SIMONE, «La legge sulla fecondazione in vitro», in La Civiltà Cattolica 2004 I, 179-183.
2 GIOVANNI PAOLO II, «Lettera Enciclica “Evangelium vitae”», in Acta Sanctae Sedis, vol. LXXXVII, 2 Maii 1995
3 A. R. LUÑO, «La legge italiana sulla procreazione medicalmente assistita», in L’Osservatore Romano 14 febbraio 2004, p.4.
4 Si ricordano qui soltanto, data l’ampia esposizione e i seri commenti a più voci: Medicina e Morale, Rivist Internazionale di Bioetica 2004 / 1: 9 –108; e C. CASINI, La legge sulla fecondazione artificiale. Un primo passo nella giusta direzione, Edizioni Cantagalli, Siena 2004.
5 P. C. STEPTOE, R. G. EDWARDS, J. M. PURDY, «Human blastocyst grown in culture», in Nature 1971, 229: 133
6 R. G. EDWARDS, «The bumpy road to human in vitro fertilization», in Nature Medicine 2001, 7: 1091-1094.
7 P. C. STEPTOE, R. G. EDWARDS, «Birth after reimplantation of a human embryo», in Lancet, 1978 (ii):366.
8 R. G. EDWARDS, «In vitro fertilization and embryo replacement: Opening Lecture», in Ann. N.Y. Acad. Sci., 1985, 442: 1-22, p. 1.
9 M. SEPPÄLA, «The world collaborative report on in vitro fertilization and embryo replacement: current state of art in January 1984», in Ann. N. Y. Acad. Sci. 1985, 442: 558-563.
10 EDITORIAL, «More embryo research?», in Nature 1988, 333: 194 (corsivo nostro).
11 MEDICAL RESEARCH INTERNATIONAL – THE AMERICAN FERTILITY SOCIETY SPECIAL INTEREST GROUP, «In vitro fertilization/embryo transfer in the United States: 1985 and 1986 results from the National IVF/ET Registry», in Fertil. Steril. 1988, 49: 212-215, p.215 (corsivo nostro).
12 MEDICAL RESEARCH INTERNATIONAL, SOCIETY FOR ASSISTED REPRODUCTIVE TECHNOLOGY (SART), THE AMERICAN FERTILITY SOCIETY, «In vitro fertilization-embryo transfer (IVF-ET) in the United States: 1990 results from the IVF-ET Registry», in Fertil. Steril. 1992, 57: 15-24.
13 R.M.L. WINSTON, A.H. HANDYSIDE, «New challenges in human in vitro fertilization», in Science 1993, 260: 932-936, p. 932.
14 AMERICAN SOCIETY FOR REPRODUCTIVE MEDICINE, «1996 Assisted ReproductiveTechnology success rates», in Fertil. Steril. 1999, 71: 798-807.
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