Seleziona Pagina

Cercasi Pro Life, disperatamente


Cercasi Pro Life, disperatamente

 

La legge 194 sull’aborto procurato – che nel 2008 compirà trent’anni continua a essere un tabù imbarazzante della nostra cultura egemone. E’ solo grazie ad alcune voci fuori dal coro se oggi il muro ideologico che difendeva questa legge è meno robusto che in passato. Fra queste voci, ha un merito tutto particolare quella di Giuliano Ferrara e del suo “Foglio”, che ha introdotto un elemento nuovo nel dibattito sull’aborto. E cioè che finalmente si può rimettere al centro della discussione il fatto sconvolgente che è implicato in ogni aborto, sia esso legale o clandestino: l’uccisione di un essere umano innocente.

Ripartire da qui significa accettare l’asprezza dell’argomento e la profonda laicità della discussione. Discussione che però rischia di rimanere subito orfana di una voce importante. E mi riferisco a quella fetta della società italiana, minoritaria ma non per questo meno importante, che giudica inaccettabile la legalizzazione dell’aborto, sempre.

Si ha infatti la netta sensazione che ormai la discussione si sia polarizzata fra due posizioni di questo tenore: da una parte, gli antichi sostenitori della “sacralità” della legge 194 e del diritto della donna a fare ciò che vuole del suo corpo (e di ciò che in esso è contenuto, foss’anche un figlio); dall’altro lato, coloro che vogliono provare a criticare questo presunto principio giuridico e culturale, ma senza però mettere in discussione, anche solo lontanamente, il fatto che l’aborto debba essere legalizzato in un Paese civile. Ora, non sfuggirà ai lettori più attenti che non è questo, e non lo era soprattutto negli Anni Settanta, il vero fronte della discussione. Che cosa manca? Manca una voce che sia disposta a ripetere – al prezzo dell’incomprensione e perfino del dileggio pubblico – che l’aborto è la soppressione di un essere umano innocente, e che quindi in uno stato civile la legge dovrebbe considerare illecita questa condotta, sanzionandola nella maniera insieme più seria e più umana.

Come si vede, questa posizione si contrappone frontalmente alla legge vigente in Italia, che è intrinsecamente iniqua e non soltanto “imperfetta e male applicata”. Ma questa posizione conserva il pregio della chiarezza e della coerenza logica. Non è infatti possibile dichiararsi fautori del diritto alla vita del nascituro, se contemporaneamente si ritiene accettabile che egli possa essere soppresso a certe condizioni e in certi casi, come quando ad esempio è ammalato o semplicemente indesiderato.

Questa lettura del dibattito attuale sull’aborto è purtroppo confermata dalle dichiarazioni rilasciate proprio al Foglio del 24 maggio dal presidente del Movimento per la Vita Carlo Casini. Parole che contengono una inequivocabile “assoluzione” della legge in vigore in Italia: “Sentiamo la necessità di creare le condizioni nella società per ricorrere all’aborto solo come ultima istanza, che da eccezione sta diventando la regola per molte donne. Una serie di dati raccolti negli ultimi anni dimostrano come la legge 194 non sia sbagliata, ma in molti casi solo disattesa o valutata in modo banale da alcuni medici.” Parole che sono state fortunatamente smentite dallo stesso Casini, ma tardivamente e soltanto a seguito delle critiche mossegli dal Comitato Verità e Vita.

Ora, una frase del genere potrebbe essere giudicata interessante sulla bocca di un leader storico del fronte abortista, oppure nel discorso di una antica femminista, oggi macerata dal dubbio. Ma che il presidente della più importante organizzazione pro life italiana – quel Movimento per la vita che nel 1981 tentò di portare in votazione un referendum totalmente abrogativo della 194, respinto dalla Corte costituzionale – dichiari che la legge 194 “non è sbagliata” è purtroppo il sintomo di uno sbandamento grave che mortifica la discussione e rende ancora più remota la possibilità di una pur piccola revisione in senso restrittivo delle norme vigenti.

Intendiamoci: qui nessuno è così sprovveduto da non sapere che oggi come oggi non sussistono nel Paese – nelle piazze e nelle aule parlamentari – i numeri per un ribaltamento della 194. Ma questo sano realismo politico non può mortificare e addirittura stravolgere l’identità dei movimenti pro life, che hanno nel loro dna la proclamazione della inaccettabilità, non solo morale ma anche giuridica, di ogni aborto procurato.

Un esempio chiarirà meglio la gravità di questo tradimento. Poniamo che – in una nazione dove il boia sia ancora in azione – i movimenti per l’abolizione della pena di morte si rendano conto di non avere il consenso popolare necessario per eliminare l’odiata condanna capitale. A questo punto, per essere più “politicamente corretti”, e per “aprire un dibattito” – come si diceva tragicamente negli anni della contestazione – questi attivisti anti pena di morte si mettono a dichiarare ai giornali: la legge sulla pena di morte in vigore nel nostro stato non è poi così malaccio, “non è sbagliata, ma in molti casi è solo disattesa o valutata in modo banale da alcuni giudici.” E ancora: dobbiamo fare in modo che la pena di morte diventi non la regola, ma l’eccezione.

Parole che agli equilibristi della politica potranno sembrare piene di buon senso, ma che costituiscono un tradimento clamoroso della posizione “di principio” che gli avversari della pena di morte dovrebbero praticare. Orbene, abbandonato il nostro esempio immaginario, constatiamo che nella realtà le cose vanno ben diversamente, e che i movimenti di opinione contro combattono la pena di morte senza fare sconti. Così, ogni tanto capita che qualche nazione si aggiunga al fronte dei Paesi abolizionisti.

La battaglia culturale e politica contro l’aborto procurato non sfugge a queste regole elementari. E se perfino coloro che sono da sempre impegnati contro l’aborto, cominciano a elogiare alcuni aspetti della legge 194, limitandosi a chiedere che funzioni meglio; beh, allora si deve constatare che oggi il dibattito si riduce a un confronto fra persone che appartengono alla stessa categoria concettuale: quella dei pro-choice. I quali ritengono intangibile in ogni caso il principio di autodeterminazione della donna, e l’idea che l’aborto sia sempre e comunque una “questione di scelta”. Il dibattito contemporaneo è, in questo senso, profondamente deludente, perché contrappone due schieramenti apparentemente fra loro lontani, ma in realtà vicinissimi. Questi due schieramenti hanno in comune un punto logico di partenza: l’idea che la donna abbia il diritto di dire l’ultima parola sulla vita, che è già sbocciata in lei. Sono due facce di una stessa cultura, la cultura pro choice, che possono essere con ragione ricondotte alla categoria dell’abortismo, così ben descritta nel 1977 dal filosofo del diritto Luigi Lombardi Vallauri. Affermare che “la donna può scegliere se abortire o no” è infatti il nucleo della legge 194, e un serio dibattito dovrebbe avere il coraggio di ripensare proprio questo caposaldo, giuridicamente e moralmente inaccettabile. Tutto il resto appartiene alla dialettica politica, che rischia di allontanare sempre più l’opinione pubblica dalla percezione della oggettiva gravità di una legge come la 194, che non andrebbe applicata meglio, né riformata, ma abrogata e totalmente riscritta nel senso più favorevole al nascituro.

Perché, una volta accettata l’idea che la vita del figlio dipende dal “potere” della donna, tutto il resto è solo contorno. Si può rendere questa scelta più o meno facile, più o meno banale, più o meno complessa, ma resta la questione di fondo: e cioè che il cittadino italiano non ancora nato è consegnato per 3 mesi – ma anche per 6 mesi se è malato – alla decisione arbitraria di coloro che sono già nati.

Gli oltre 4 milioni e mezzo di italiani che –dal 1978 a oggi – la legge 194 ha eliminato prima della nascita sono un prodotto di questa “cultura della scelta”. Ed è proprio contro di essa che – con una buona dose di coraggio – qualcuno dovrà pure opporre il suo laico, minoritario, impolitico ma fermo “no”. Senza se e senza ma.

Mario Palmaro
Presidente nazionale del Comitato Verità e Vita
Docente di Filosofia del diritto, Filosofia Teoretica e Bioetica nell’Università Europea di Roma